I bambini del centro di Soddo, sono riusciti a scavare tra le macerie dentro di me, riscoprendo un cuore che batte.

Sì, lo ammetto, forse perché sono una procrastinatrice seriale, ma anche perché a volte è più facile rinnegare la realtà e abbracciare l’ipocrisia, che è ben radicata nella nostra società.
Una volta tornata dal viaggio, non ho mai riguardato le foto e, a chi mi chiedeva com’era andato, mi limitavo a rispondere che era stata una bella esperienza, senza mai scendere nei dettagli.
Oggi però ho trovato il coraggio di riguardare quelle foto, e la nostalgia che ho provato è stata tanta, a tal punto da sembrare un ricordo così lontano da non appartenermi più. Quindi mi è sembrato inevitabile non darne una mia considerazione, ma soprattutto un ringraziamento.
In Etiopia ho ritrovato la vera Sabrina, lontana dalle pressioni e dalle angosce della vita quotidiana.
Prima di tutto, voglio ringraziare i miei compagni di viaggio, che mi hanno fatto ricredere sulla visione che avevo delle persone. In loro ho trovato persone buone, genuine, ma soprattutto umane. E può sembrare banale, ma per me, nel mondo in cui viviamo – pieno di egoismo e indifferenza – è la cosa che conta di più.
All’inizio ero diffidente, stavo sulle mie e non ero nemmeno interessata a stringere legami con loro. Ma alla conclusione di quei dieci giorni, che si, possono sembrare pochi, posso dire di aver costruito rapporti solidi e veri, che anche se non avrei più rivisto, so che il bagaglio emotivo che avevamo condiviso ci avrebbe sempre tenuti connessi.
Un altro ringraziamento va al prof. Marco.
All’inizio mi aveva dato l’impressione di essere un po’ goffo e impacciato, ma nei momenti in cui ho avuto la fortuna di parlarci, ho visto un uomo gentile, magnanimo e premuroso, che cerca sempre di vedere il buono anche dove c’è del marcio.
Con la sua capacità di farti immergere nei suoi discorsi, ho riscontrato un barlume di speranza. Potevo chiaramente vedere nei suoi occhi la passione con cui dichiarava apertamente le sue ideologie, e mi ha ispirato, facendomi sentire fiduciosa anche verso quelle generazioni che vedono in noi giovani il futuro declino della società.
Solo perché, magari, non abbastanza responsabili nell’ammettere che se il futuro appare così preoccupante e incerto, è proprio a causa delle loro azioni che ora si ripercuotono su di noi. Però questo non per il prof. Marco, che nutre in noi giovani una grande speranza, e ciò mi ha fatto sentire motivata e fiduciosa. Perciò, grazie.
Sono profondamente grata per l’esperienza vissuta in Etiopia, nella quale ho avuto la possibilità di riconnettermi con me stessa e distrarmi dalle finte preoccupazioni che si insidiano nella mia mente. Solo lì ho capito quanto fossero misere e fittizie.
Il viaggio in Etiopia non è stato un semplice viaggio: è stata un’esplorazione all’interno di me, che mi ha permesso di fare cadere la maschera che solitamente porto. Dietro all’apparente durezza e freddezza si nasconde un’anima profondamente vulnerabile e sensibile, che avevo dimenticato, costretta a nascondersi dietro a una corazza fatta di apatia, in un mondo che ci insegna che essere buoni non ripaga.
Eppure, per me, da sempre non c’è ricchezza più grande nel poter regalare un sorriso senza nulla in cambio. Una ricchezza di cui sono ricchi i bambini del centro di Soddo, che sono riusciti a scavare tra le macerie dentro di me, riscoprendo un cuore che batte.

Sabrina Jebrane, Gennaio 2025 

E, a tre settimane dalla fine dell’esperienza, confermo: sono ancora lì.

Ho rimandato per giorni la stesura delle mie impressioni sull’esperienza in Etiopia; non per mancanza di
voglia, tutt’altro: è da quando io e il mio gruppo abbiamo fatto ritorno in Italia che avverto la necessità di
dare forma ai miei pensieri. Ma il problema è proprio questo: riuscire a districare l’una dall’altra le emozioni
e le considerazioni che si intrecciano nella mia mente da trenta giorni a questa parte, per stenderle
ordinatamente su un foglio e per renderle comprensibili a me stessa e a chi, in Africa, non c’è mai stato.
Ricordo che durante la permanenza in Etiopia ci è stato detto che raccontare quanto avessimo visto
sarebbe stato tanto complesso per noi quanto comprendere per i nostri interlocutori; non credevo del tutto
a questa affermazione. “Quanto può essere arduo descrivere e capire?”, mi domandavo, con una punta di
scetticismo. Mi sono dovuta ravvedere, soprattutto per quanto riguarda il primo aspetto: parlarne.
Nulla è semplice dopo l’Africa: né tornare a casa, né raccontarla, né scriverne. Anzi, ricordare fa male,
perché mi rammenta che, adesso, io non sono più lì. È un dolore sottile, infido, subdolo e scorretto, perché
rimane sopito, in sottofondo, per poi emergere e colpire improvvisamente, innescato dalla più banale
situazione: prima di partire dall’Italia, sapevo già che lasciare l’Etiopia non sarebbe stato facile; ma ne ho
avuto contezza il primo giorno in cui sono rientrata al lavoro, quarantotto ore dopo il mio ritorno:
parcheggiando la macchina, ho notato un cumulo di terra, che, in quell’istante, veniva colpita dal sole in
maniera così particolare da avere assunto un colore marroncino-rossastro. E la mia mente è andata subito
lì, spontaneamente: all’Etiopia, e alla sua terra rossa. In quel momento mi sono resa conto che, pur essendo
già tornata in Italia, non ero realmente nel mio Paese. O meglio, lo ero fisicamente, ma la mia mente era
rimasta in Africa.
E, a tre settimane dalla fine dell’esperienza, confermo: sono ancora lì.
Ho iniziato e concluso il mio viaggio allo stesso modo: piangendo. In fase di atterraggio all’aeroporto di
Addis Abeba, ho guardato fuori dal finestrino e mi sono commossa, perché finalmente ero in Africa,
finalmente realizzavo uno dei miei sogni più grandi. Mentre l’ultimo giorno, sui sedili posteriori della jeep
che stava creando sempre più distanza tra noi e Soddo, lacrime di tristezza, miste a gratitudine, nostalgia e,
soprattutto, cambiamento mi hanno accompagnata per diversi chilometri. È vera la frase “L’Africa ti
cambia”, a posteriori posso dire che sia una delle affermazioni più veritiere che io abbia mai sentito: non si
può tornare uguale a come si è partiti dopo aver trascorso del tempo nel continente nero. Non dopo quello
che si è visto, toccato e percepito.
In Etiopia, io ho visto l’umanità, la forza e la tenacia; ho toccato la povertà, la fratellanza e la felicità; ho
percepito la spontaneità, l’amore e l’assenza di giudizi.
Mi sarebbe piaciuto descrivere l’episodio che più mi ha commossa, ma la verità è che ogni singolo incontro
mi ha lasciato qualcosa e narrare solo di uno vorrebbe dire omettere ingiustamente tanti particolari che
hanno reso il viaggio una delle esperienze migliori che abbia mai fatto.
Non credo di avere mai sorriso così sinceramente come ho fatto in Etiopia; potrebbe sembrare un
controsenso agli occhi di chi non ha mai messo piede in Africa, e posso capirlo. Come si può pensare di
sorridere quando si è a contatto con l’estrema povertà? Eppure, ciò che ho notato io è stato il grandissimo
senso di felicità e gratitudine che sprizzava da ogni centimetro di pelle delle persone. Sono stati soprattutto
i bambini che abbiamo incontrato nel nostro cammino che mi hanno trasmesso questa sensazione: non ce
n’è stato uno che, dopo averci visto, non ci sia corso incontro o non ci abbia salutato da lontano indossando
sul volto un sorriso che sembrava avere più di trentadue denti, che sembrava più grande del suo viso.
Bambini che si avvicinavano a noi con gli occhi pregni di incontenibile gioia e un pizzico di sorpresa, e che ci
tendevano la mano non per ricevere qualcosa, ma solamente affinché gliela prendessimo; per il puro e
semplice desiderio di toccare un’altra mano, di un colore più chiaro, di una persona sconosciuta, con una
vita diversa e con problemi diversi. Ma quel gesto, quelle semplici strette di mano, quei volti illuminati da
sorrisi così contagiosi, hanno avuto il potere di rendere superflue tutte le nostre differenze e di comunicare,

senza usare la parola, che siamo davvero tutti figli dello stesso mondo. In Africa si perde la propria
singolarità e il proprio essere individui, e si converge in qualcosa di più grande di tutti noi, si diventa un
tutt’uno gli uni con gli altri, ci si trasforma in un singolo tutto.
Le strette di mano dei bambini, le donne che mandano baci, gli uomini che si inchinano e si tolgono il
cappello per salutare sono riusciti ad abbattere le barriere invisibili che l’uomo occidentale tende a erigere
tra sé e gli altri, come se l’incontro con un’altra persona potesse avere il potere di ledere un individualismo
tanto solenne e prezioso nella “nostra parte di mondo”. L’Africa insegna che non c’è nulla di più sacro
dell’incontro con l’altro e che, in fin dei conti, riuscire a rompere il confine che individualizza è, forse, uno
dei primi passi per vivere la vita in maniera più pura.
Ricordo con profonda nostalgia e gratitudine una ragazzina conosciuta in uno dei tanti villaggi che abbiamo
visitato; sono davvero in difficoltà nello spiegare quell’incontro, ma posso dire che, con nessuna parola e
tantissimi sguardi, ci siamo capite. Ci siamo viste, ci siamo riconosciute, ci siamo comprese, ci siamo dette
“Io non ti conosco, ignoro anche il tuo nome, ma vedo tutte nostre differenze e so che queste non contano,
perché, in fin dei conti, tu sei come me e io come te”. In quei profondi occhi scuri che mi osservavano, in
quel sorriso appena accennato e in quel volto segnato dalla curiosità, mi sono specchiata, e ho percepito
che avevamo appena stabilito una connessione.
Il senso di fratellanza e vicinanza che mi ha trasmesso quel momento l’ho respirato a pieni polmoni durante
tutta la mia permanenza in Etiopia. L’ho avvertito in una quantità innumerevole di situazioni, che si
possono riassumere in un episodio che mi ha particolarmente toccata: un bambino del Centro, dopo aver
saputo che sono figlia unica, mi ha preso la mano, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto con dolcezza:
“Adesso sono io tuo fratello, e ogni volta che tornerai qui al centro, sarai circondata da centinaia di altri
fratelli”.
E io adesso l’ho capito il motivo per cui in Africa sono stata così felice, il motivo per cui sono sempre stata
così serena, con gli occhi brillanti e colmi di una luce totalmente diversa da quella che sprigionano quando
sono in Italia: perché, in Etiopia, ho finalmente (ri)scoperto il valore delle piccole cose, che piccole non sono
affatto, perché sono le più pure, autentiche e genuine.
In Etiopia non ho mai avuto paura di mostrarmi per quel che sono, non ho avuto timore di fare vedere agli
altri ciò che sentivo, e mi sono sentita totalmente libera di esibire le mie debolezze, perché lì sbagliare non
è così importante; non ci sono pregiudizi e giudizi, non bisogna dimostrare di essere e di sapere fare,
perché in Etiopia basta che tu ci sia, che presenti la versione sincera e reale di te per essere accettato per
ciò che realmente si è.
Arrivata in Africa, pensavo che sarei stata io a lasciare qualcosa alle persone, invece mi accorgo che è stato
il contrario.
E quindi com’è stato tornare alla mia vita, dopo quasi due settimane passate in contatto con quella realtà?
Com’è stato tornare a casa? Riabituarmi allo stile di vita del “nostro” mondo?
Beh, in primo luogo ho scoperto che il mal d’Africa esiste davvero, ed è una sensazione prorompente,
viscerale, a tratti anche mentalmente invalidante. E poi mi sono resa conto che ora nella vita si è creata una
spaccatura: il prima e il dopo l’Etiopia. L’Etiopia mi avrà tolto i confort ai quali sono sempre stata abituata,
ma mi ha dato tanto, molto di più: il calore di un sole diverso, la terra rossa che brilla sotto i suoi raggi, i
colori più nitidi, il ruggito potente delle cascate, il senso di appartenenza a un qualcosa di primordiale, la
familiarità dei gesti, la pazienza, la comprensione, le relazioni sincere e spontanee, la maggiore
predisposizione verso l’altro, l’allegria, la creatività… Sensazioni che ho intenzione di custodire
gelosamente, perché so che, se non ci presterò attenzione, verranno inevitabilmente contaminate dal
differente spirito che permea il nostro stile di vita.
La prima cosa che mi ha colpita dell’Etiopia è stata proprio la sua terra rossa, di un rosso nuovo, più acceso,
più ferroso, un rosso sangue che pareva volere spiegare che, forse, è l’Africa la prima vera casa
dell’umanità. Una terra rossa che si infila ovunque, che per quanto ci si possa lavare rimarrà comunque in

qualche pertugio, dentro le scarpe, tra le pieghe dei vestiti, negli zaini, persino all’interno delle orecchie.
Ora, a qualche settimana dal rientro in Italia, vivo la mia istintiva attrazione verso quel suolo così differente
come un segno: proprio come la sua terra, l’Africa, una volta vissuta, non può che rimanere appiccicata addosso.

Federica Franca , Dottoressa Magistrale in Scienze Criminologiche. Gennaio 2025

La società sportiva del Vismara Calcio dona materiale sportivo ai ragazzi del Centro.

Il Vismara Calcio, in più di una occasione ha voluto regalare un sorriso donando abbigliamento e materiale sportivo ai ragazzi dello “Smiling Children Town – Città dei Ragazzi Sorridenti”, di Soddo. La società sportiva pesarese non è nuova a queste iniziative umanitarie con il suo staff dirigenziale, coinvolgendo anche diversi ragazzi che giocano o hanno giocato con Il Vismara, i quali con entusiasmo partecipano a questa gara di solidarietà raccogliendo abbigliamento e scarpe da donare anche ai bambini/e dei vari villaggi poveri della Regione del Wolayta (Etiopia). Piccoli gesti che comunque aiutano tanti ragazzi ad avere la possibilità di fare sport e sentirsi meno soli.

L’artista Tiziana Paci dipinge la scuola di Buditti (Etiopia)

Nell’occasione del suo ultimo viaggio in Etiopia avvenuto nello scorso mese di Novembre l’ex Professoressa del Liceo Artistico “F. Mengaroni” di Pesaro, nonchè autrice di diversi libri sulla moda Tiziana Paci, ha dipinto su richiesta delle suore che gestiscono la scuola di Buditti, nella Regione del Wolayta, frequentata da circa 2.000 ragazzi/e delle varie classi, alcuni murales per renderla più accogliente. L’artista Tiziana Paci, si è mostrata sempre molto sensibile alle varie problematiche riguardanti i ragazzi/e di quel Paese Africano, devolvendo il ricavato della vendita di un suo libro in favore dei ragazzi di strada accolti presso il Centro denominato ” Smiling Children Town – Città dei Ragazzi Sorridenti”, fondato da Abba Marcello. In occasione di un altro suo viaggio coinvolgendo anche alcuni ragazzi aveva dipinto un’aula del suindicato Centro utilizzata per lo studio pomeridiano. Inoltre ha voluto dipingere le pareti del bar aperto da una ragazza disabile per aiutarla ad avere più visibilità al fine di rendersi indipendente ed iniziare un percorso lavorativo.

Inoltre

Non potremmo vivere in un mondo in cui siamo tutti uguali con stessi diritti e libertà?

L’uomo si è trasformato in egoista e solitario. Da alcuni anni a questa parte l’essere umano non fa altro che ostinarsi a volere sempre di più, non accontentandosi di quello che possiede. Una delle ragioni per cui ho voluto intraprendere questo viaggio è stata appunto quella di riscoprire le piccole cose, cui ormai sembrano date per scontate. Ovviamente tutti noi tendiamo a credere di essere diversi, di saper apprezzare tutto ciò che ci circonda in modo sincero. Se però cerchiamo di analizzare un momento, il modo in cui viviamo le nostre giornate ci accorgeremo che non è così. Ho riscoperto grazie a questa esperienza il concetto di fratellanza, di non pensare solo a me stessa come molto spesso si fa all’ordine del giorno. Ci viene insegnato di guardare a noi stessi, al nostro futuro… Mi chiedo però dove è finita l’importanza dell’altro? Stiamo perdendo la capacità di credere nel prossimo, in un’idea, di vivere un’utopia o un qualsiasi sentimento pervasivo del nostro essere. Basta vedere i talk show, ascoltare i discorsi dei politici o i discorsi in una coda ad un ufficio pubblico o ancora in una sala d’aspetto di un medico. Siamo tutti tesi ad affermare i nostri presunti diritti, anche contrastando quelli altrui. Sono venuta a conoscenza di una realtà che mette al primo posto l’altro, cosa che mi ha colpito nel profondo. Parlando con i bambini, vedendo i comportamenti delle persone locali, mi sono sentita come a casa. Ciò mi ha scioccato particolarmente perché nonostante ho visitato tanti luoghi in giro per il mondo in precedenza, non mi era mai capitato legarmi così in fretta con persone sconosciute o quasi. Ricevemmo un’accoglienza più che calorosa ed amorevole che non mi sarei mai aspettata, venendo da una società chiusa all’altro. Siamo abituati a puntare il dito, conoscendo solo l’esteriorità di quella persona non conoscendo il loro passato, quello che stanno passando e la loro personalità. Siamo una società estremamente superficiale e questo è dovuto anche all’uso dei Social. Tutti possono piacere e quindi tutti possono scegliere tra una cerchia di persone molto grande che può essere interessante, ma più probabilmente superficiale. Proprio per questo siamo talmente abituati a persone così superflue, che quando abbiamo davanti a noi persone oneste, ci chiediamo dove sia la fregatura. Durante questi quattordici giorni di permanenza, ho vissuto tantissime esperienze contraddittorie: dai bambini che quando andavamo in giro con il nostro autobus, vedendoci dai finestrini che avevamo la pelle bianca, erano come increduli, portando le mani alla bocca, mettendosi a correre, urlare dalla gioia, salutandoci con dei sorrisi a trentadue denti. Ogni volta tutto ciò mi riempiva il cuore ed è proprio per questo infatti, che la maggior parte delle ore che passavamo nel bus per spostarci da un luogo all’altro, io ero costantemente seduta dalla parte del finestrino ad ammirare quei paesaggi sconfinati e a salutare chiunque vedevo lì fuori. L’africa però non è solo un continente di persone felici che apprezzano ogni minimo gesto e minima cosa che tu fai per loro; ma è anche, soprattutto una delle parti più povere delle terra, in cui le persone muoiono di fame o di sete ogni giorno. Ho visto bambini che piangevano davanti a me perché non avevano nulla da mangiare, quando molte volte capita che noi occidentali buttiamo via il cibo quando ne ordiniamo troppo al ristorante o se ci cade per terra per qualche secondo. Al contrario, loro per mangiare devono frugare nella spazzatura per non morire di fame e penso che questo ci dovrebbe fare molto riflettere di quanto noi siamo fortunati a vivere in questa parte del mondo. Me lo sono chiesta un’infinità di volte… Perché io sono nata qui? Perché deve esistere una realtà così povera quando ci sono persone estremamente ricche che ogni giorno guadagnano tantissimi soldi? Non potremmo vivere in un mondo in cui siamo tutti uguali con stessi diritti e libertà? Forse tutto ciò sarà possibile tra tanti anni perché infondo un mondo che ancora fa la guerra per conquistare delle terre, facendo morire migliaia di persone all’ordine del giorno per volere di “una persona importante” non è pronto ad avere tutti gli abitanti di questo mondo allo stesso piano.

Alice Pagnoni 

24 Febbraio 2023

L’energia che mi hanno trasmesso è unica

Da quando sono tornata tutti mi chiedono “come è andata?”.

Subito mi trovo in difficoltà e vengo inondata da un numero sconcertante di pensieri. Questo viaggio è uno di quelli che se non vivi a mio parere è inspiegabile. Non vi sono abbastanza parole per potermi esprimere. Le emozioni che ho provato sono così piene e pure che tuttora, settimane dopo non riesco a pensare ad altro. Ho scoperto come ci si sente ad essere pienamente e puramente felici, come il sorriso sia un linguaggio universale, come non abbiano niente ma allo stesso tempo hanno tanto, come il loro sguardo intenso nonostante siano giovani sia più vissuto del nostro. Ho scoperto cosa sia una vera e propria accoglienza ed essere circondata da persone che anche se non conosci da molto tempo arrivi a considerare come fratelli. Quando sono partita avevo già aspettative molto alte ma questa esperienza l’ha sorpassata di gran lunga. L’unica mia preoccupazione era quella di non sentirmi a mio agio, soprattutto con i ragazzi del centro, pensavo di non riuscire a parlare e trovarmi bene con loro. Ma da subito questo muro che mi ero imposta è stato demolito. L’energia che hanno e che mi hanno trasmesso è unica. Ho imparato quanto siamo veramente fortunati, quanto tanto abbiamo, quasi troppo e che spesso non apprezziamo. Ho ricevuto talmente tanto che ancora sto rielaborando i pensieri. La mia giornata preferita è stata quella in cui siamo saliti sul monte, il loro modo di trascinarti, prenderti lo zaino per facilitare la camminata, prenderti la mano, stringendola forte; sono cose che non scorderò mai. Una delle cose che rimarrà impressa nella mia mente sono i saluti, i sorrisi delle persone che non conosci ma che ti danno il benvenuto a braccia aperte come se fossi un loro amico. L’ultima serata è stato un momento magico che rimarrà scolpito dentro me per sempre, i balli ed i canti gioiosi che hanno concluso questa esperienza erano per accompagnati dalla forte commozione e tristezza provata nel salutare tutti i bambini, anche loro in lacrime. É stata una esperienza che non dimenticherò mai e se mai sarò così fortunata da poter tornare non vedo l’ora di abbracciare e stringere i miei nuovi fratelli.

Sara Rossini, viaggio in Etiopia nel mese di Novembre 2022

Il mio cuore però l’ho lasciato lì.

Prima di questa esperienza viaggiare per me era scoprire nuovi luoghi, staccare dalla routine quotidiana e incontrare culture diverse dalla mia. Mai però ero tornata da un viaggio con la sensazione di aver esplorato dentro di me e non nei diversissimi posti che ho visto e che mi hanno continuamente stupito. Sono rientrata in Italia con la testa piena di riflessioni, piena di confusione e con la sensazione di essere un po’ più leggera e felice. Abituata a visitare musei e città, mi sono ritrovata a viaggiare per persone, storie e soprattutto sorrisi. Amo sorridere da sempre, e spesso per questo motivo vengo considerata con la testa fra le nuvole o ingenua, in realtà ritengo semplicemente che un giorno senza sorriso sia un giorno perso e in Etiopia mi sono sentita a casa. Mi hanno dato la conferma che non è necessario un motivo per cui essere felici, che quando la vita non va a gonfie vele, non c’è ragione di abbattersi ma anzi è necessario dare sempre il meglio di sé. Abbiamo visto molte persone povere, uomini che dormono in capanne assieme ai loro animali, che prendono l’acqua dalle fontane, che vivono con il poco che hanno e lo fanno serenamente. Ogni sorriso, ogni saluto non era sprecato e anzi ti appagava completamente. La loro idea di comunità è qualcosa di concreto, aiutarsi e vivere insieme, ho percepito grande solidarietà e l’accoglienza che ci hanno dato è stata molto più calda del sole sopra le nostre teste. È stato un viaggio travolgente e emozionante, ogni giorno avevo la sensazione di avventurarmi in qualcosa che non mi aspettavo ma che già sapevo mi avrebbe lasciato senza parole, ed è proprio così che mi sento anche ora, dentro di me piena di odori, rumori, risate che però fatico a descrivere. Sono tornata spaesata, confusa ma allo stesso tempo molto motivata negli obbiettivi della mia vita, ho sentito una spinta, la stessa che i bambini mi davano mentre camminavamo in salita per aiutarmi, ma questa volta dentro di me. È stato un viaggio capace di disordinarmi la vita, mettere tutto in discussione, chiedermi se quello che abbiamo serve a qualcosa, e se serve perché molti non sono felici nonostante questo? I gesti dei bambini, la condivisione che li unisce e la gentilezza che riversano in ogni momento ti mettono nella posizione di cambiare passo, smettere di camminare ma iniziare a correre come fanno loro, verso il proprio sogno che conservano con cura e che mi hanno descritto con occhi sognanti. L’impegno che mettono nello studiare, la loro voglia di imparare, e alla domanda “quale materia ti piace di più?” la risposta di un bambino “tutte le materie mi piacciono, perché tute le materie meritano la mia attenzione e il mio interesse allo stesso modo” mi hanno fatto capire quanto ancora ho da imparare dalla vita e dalle persone. Ho cercato di indagare la loro storia, parlare della loro cultura, confrontare le differenze e cercare le cose che ci accomunano, perché per quanto veniamo da paesi distanti per le nostre usanze e origini, siamo in qualsiasi caso tutti uomini. E alla fatidica domanda “cosa ti sei portata a casa?”, penso di aver riportato a Pesaro molto di più di quello che ho lasciato lì. I milioni di sorrisi che mi hanno regalato, tutti i volti che ho incontrato e che nascondono una storia, le persone che nonostante non mi conoscessero mi hanno fatto entrare nella loro vita, mi porto a casa l’accoglienza, i legami che in due settimane ho intessuto, la loro generosità e la loro idea di comunità unita e solidale. Mi porto a casa il senso di condivisione, non hanno il niente eppure lo condivideranno sempre con te. Mi porto a casa le mani che mi sfiorano mentre cammino e che si intrecciano con le mie. Mi porto a casa i colori della terra rossa dell’Etiopia, le stelle che splendono nella notte e tutti gli animali osservati con curiosità. Mi porto a casa la vita che loro hanno, e di cui ogni giorno sono grati. Mi porto a casa il loro non lamentarsi mai e il loro bastarsi sempre. Il mio cuore però l’ho lasciato lì.

Alice Pagnini, viaggio in Etiopia nel mese di Novembre 2022

Storia di Natanael Filipos

Poco più che bambino Natanael Filipos, dopo la morte di sua madre, aveva continuato a vivere con il padre, che poco tempo dopo, si era risposato con un’altra donna e da quel momento aveva capito che non poteva continuare a vivere sotto il loro stesso tetto, perché era venuto a mancare l’amore, l’affetto e nessuno dei due si curavano più di lui neanche per le cose di prima necessità.

Per cui era stato costretto a lasciare la casa paterna e vivere di espedienti nelle strade della città di Soddo e con tante difficoltà e pericoli.

Per sopravvivere Filipos, aveva imparato a rubare ed era diventato con il tempo un ladro esperto, con l’istinto di rubare qualsiasi cosa vedeva e che poteva servire a soddisfare le sue esigenze esistenziali e di sopravvivenza, spostandosi anche in altre città della Regione del Wolayta, diventando quasi un professionista del furto, anche se adolescente ma con un impulso irrefrenabile ad impossessarsi di tutto ciò che gli creava un guadagno economico.

Ma, nel frattempo attraverso alcuni suoi coetanei veniva a conoscenza dell’esistenza dello “Smiling Children Center” e quindi decideva di chiedere ad Abba Marcello di intraprendere un percorso scolastico, pur con ancora molte riserve mentali. Infatti, aveva continuato a rubare anche all’interno del Centro rendendosi protagonista di furti di magliette, pantaloni, scarpe che di nascosto le rivendeva al mercato cittadino, a suoi coetanei che si potevano permettere di acquistarle per poi a loro volta rivenderle a prezzo maggiorato.

Con il trascorrere del tempo e con i suggerimenti, consigli e con la stima di tanti altri bambini e dei superiori del centro, aveva cercato di limitarsi a rubare. Finché, si era reso conto che comportandosi in quel modo non faceva altro che dare problemi e dispiaceri a tutti. Con il passare dei giorni Filipos, aveva avuto il coraggio di smettere di rubare, pur con tanta fatica, ma felice di non dare più dispiacere ai sui compagni ed Abba Marcello.

A Marzo del 2020 era stato costretto, come tutti i ragazzi del Centro, a ritornare a casa (causa pandemia da Covid-19) non con la nuova famiglia di suo padre, ma ospite di suo fratello maggiore.

Nel frattempo ha incontrato i suoi vecchi amici di avventure ladresche, passando con loro anche diverso tempo. Ma pur avendo avuto molte proposte per ritornare a rubare insieme, non le ha mai accettate, anzi si è prodigato per convincerli a desistere ed a cambiare vita. Alcuni di loro hanno accettato i suoi consigli, prendendo coscienza che così facendo procuravano dispiaceri a gente onesta. Altri suoi amici invece si sono dissociati, dicendogli che non lo riconoscevano più e che lo ritenevano un debole e la vergogna della loro compagnia.

Quando è ritornato al Centro, nel salutarli ha ribadito a loro che lui vuole una vita onesta e un futuro dignitoso e che non è sua intenzione di non far vergognare suo padre di avergli dato la vita.

Dopo alcuni mesi dal suo ritorno al Centro lo si nota felice e molto volenteroso nello studio e con l’aspirazione di diventare un dottore. Più volte ha ringraziato Abba Marcello per questa opportunità che gli ha dato e per avergli fatto capire quanto sia bello vivere onestamente.

Incontrare per cambiare

Questo viaggio lo abbiamo voluto, perché siamo persone che hanno voglia di scoprire, per curiosità e soprattutto per necessità, quello che relazioni in un mondo molto diverso da nostro riescono a trasmetterci con il desiderio di lasciarci trasformare in “umani” migliori.

Ciò premesso, il classico “vado per fare esperienza” non la racconta tutta su quello che ci ha spinto a fare un viaggio così speciale. E la straordinarietà del viaggio non é certo negli aspetti materiali: a Soddo siamo stati nutriti, accuditi, accolti come ospiti d’onore per 18 giorni.

Il viaggio per me, Cristiano di Santa Croce, è nato dalla determinazione di alcune ragazze della nostra comunità di andare alla scoperta “frontale” di mondi e di incontri mai direttamente sperimentati. Le stesse, mi hanno chiesto di aiutarle ad organizzare una esperienza in Africa e dopo qualche giorno, mi viene segnalato che Marco Signoretti stava proponendo una esperienza estiva di volontariato per l’Etiopia e precisamente a Soddo che era qualcosa di diverso rispetto alle conosciute e meritevoli esperienze che lo stesso Professore realizza da anni con gli studenti delle high schools pesaresi. Essendo coinvolto anche nell’attività missionaria della Diocesi, conoscevo per fama il fratello Marcello e il suo apostolato in terra Etiope. Questa era una occasione unica e privilegiata per conoscere questo uomo di Dio; è stato inoltre un onore essere chiamati da lui a collaborare.

Dovevamo vivere insieme ai ragazzi di strada che hanno intrapreso un percorso formativo e di studio presso il Centro Smiling Children Town” accompagnandoli durante una parte delle loro vacanze, soprattutto con una attività didattica che da una parte fosse utile, dall’altra fosse svolta in termini leggeri, senza esami o voti, con risvolti possibilmente divertenti e ricreativi. Era richiesto poi di organizzare anche il resto del loro tempo proponendo nuovi giochi e forme di aggregazione per estendere e qualificare il tempo dell’incontro che ci avrebbe visti presenti dall’11 al 28 Agosto 2019.

Senza conoscere molto delle composizioni per età e dei livelli scolastici che avremmo incontrato, abbiamo sviluppato le basi per due corsi, uno di informatica e uno di inglese, creando anche degli “spazi di fuga” per poter creare qualcosa di diverso alla luce delle necessità che avremmo trovato in loco. Abbiamo poi messo insieme le esperienze dei giovani partecipanti al viaggio sulle attività creative e sui giochi di gruppo, raccolto offerte tra amici, parenti e colleghi di lavoro, procurato 8 computer portatili, un proiettore, un paio di valigie di cancelleria e siamo partiti.

Arrivati al Centro “Smiling Children Town” di Soddo, l’assalto dei 130 bambini è stato immediato, non c’è stato spazio per le presentazioni, dopo mezz’ora eravamo chi sui campi da calcio, chi su quello di pallavolo, chi ballava e chi giocava a dama, con scacchiera Etiope (disegnata su cartone) pedine Etiopi (tappi di bottiglia colorati) e regole Etiopi.

Dal giorno successivo, previa riunione serale con il Direttore Wondesen e Abbà Marcello, i ragazzi sono stati divisi in 3 sottogruppi, per fasce di età, capacità, necessità, inclinazioni e ci sono stati affidati per i corsi. Diciamo subito che allo “Smiling Children Town” non esistono problemi di disciplina, ma regna l’attenzione, la solidarietà piena coi compagni in difficoltà, la voglia di imparare, l’apprezzamento per il lavoro dei volontari, continuamente ringraziati per la loro presenza e attenzione alle loro necessità. Il clima è quasi irreale per quanto sereno.

Fin dal primo momento le preoccupazioni si sono sciolte, ci siamo resi conto che ci rendevamo utili, che in tutti c’era voglia di essere li in quel momento, ognuno nei propri ruoli, c’era insomma in tutti il desiderio e la felicità dell’incontro. Fratelli piccoli e grandi che non si sono scelti ma che la vita ha fatto incontrare. E allora da li in avanti è stato un susseguirsi di giorni pieni, intensi, belli e per questo passati in un attimo, giorni di lavoro e di gioco, di confronto e di incontro.

I bambini che abbiamo incontrato si hanno dato emozioni, ti prendono talmente tanto che in un contesto del genere possono anche distrarti da una profonda riflessione sul resto, in particolare sugli altri eroi (missionari in Africa), cioè, quelli che le scelte le hanno fatte …. pesanti, coraggiose e rivelatrici della loro gioia di vivere; quelli che si sono messi in gioco da adulti responsabili, per i bambini e per tutti i bisognosi che incontrano. Quelli che mi mettono in crisi con me stesso e di fronte alla mia scarsa capacità di azione.

Se Abbà Marcello fosse solo il personaggio di una storia, potrebbe già essere il personaggio di un libro di successo, una vita di sconvolgimenti profondi e di “eccomi” in risposta alle chiamate (plurale) di Dio. Ma il problema per me è che Abbà Marcello esiste davvero, incontra la “sua gente” come lui è solito chiamarla, senza condizioni, si lascia coinvolgere e non dimentica, ne la gente si dimentica di lui.

E’ necessario inoltre purificare il proprio spirito di servizio sull’esempio di persone come Abba Marcello, rifuggendo dalla tentazione istintiva di cercare un risultato di pubblica riconoscenza.

Ad Addis Abeba, nel parcheggio dell’aeroporto, esclusivamente preoccupato di riprendere il controllo delle valigie, essendoci qualche soggetto sospetto nei paraggi, sento una voce: “Ciao Luigi, sono proprio contento di averti conosciuto ……”. “Grazie, Abbà Marcello per avermi voluto bene per quello che sono, spero di ritornare ad imparare ancora qualcosa.”.  Luigi Gabrielli