Storia di Abel Ansabo

Questo giovane etiope proviene dal villaggio di Gasubba nella Regione del Wolayta e la sua famiglia molto povera e contadina è composta da sei figli.

Abel Ansabo è un ragazzo con una grande voglia di riscattarsi dopo un’infanzia piena di stenti e sofferenze. Fuggito dal suo villaggio ha vissuto per le strade di Soddo, dormendo in luoghi di fortuna e per terra e subendo ogni tipo di intemperie climatiche, prima di iniziare il percorso di inserimento al Centro “Smiling Children Town”, costruito da Abba Marcello ed il successivo percorso scolastico. Il suo sogno è quello di laurearsi in ingegneria e sicuramente ci riuscirà perché si impegna moltissimo a scuola e con un notevole profitto.

Quello che soprattutto ha colpito Abba Marcello di Abel Ansabo, sta nel fatto che gli ha confessato che vuole diventare un bravo ingegnere, non per fare soldi, ma per costruire altri centri come questo, in cui vive attualmente il suo percorso di vita scolastica, in altre città dell’Etiopia per dare la possibilità a tantissimi ragazzi del suo paese di lasciare la vita di strada e dare loro le stesse possibilità di crescita che ha avuto lui, togliendoli dalla sofferenza della vita di strada.

Abel Ansabo, è un ragazzo molto educato, sensibile ed altruista: Vederlo andare a scuola con orgoglio e fierezza, fa intuire con quanta decisione vuole raggiungere il suo sogno.

Attualmente sta frequentando la decima classe e gli mancano due anni di scuola preparatoria per poi iscriversi all’università di Soddo.

 

Storia di Abel Alena

Abel Alena proviene da una famiglia di contadini, composta da undici figli e con pochi beni a disposizione per sbarcare il lunario. Prima di inserirsi nel Centro “Smiling Children Town” di Soddo ha vissuto in strada per circa due anni. Ora sta frequentando la decima classe e gli mancano ancora due anni di scuola preparatoria per poi raggiungere l’università.

Credeva di trovare fuori del suo villaggio miglior vita, ma come quasi tutti i bambini, si era imbattuto nella dura realtà della vita di strada, piena di sacrifici e di sofferenze, per procurarsi il cibo, un misero letto e un lavoro.

Al “Smiling Children Town”, la sua vita è completamente cambiata, vive con orgoglio la sua nuova avventura da studente e quando si reca a scuola con la divisa gli brillano gli occhi, così ben vestito, con scarpe dignitose e soprattutto ha un alto profitto scolastico ed è attualmente terzo in graduatoria in una classe di sessanta ragazzi.

Abel Alena, viene da una famiglia di ortodossi, frequenta regolarmente la sua chiesa, servendo il pastore, da piccolo diacono. Attualmente sta anche studiando per poter diventare a sua volta un Pastore della sua chiesa Ortodossa e si sta attivando moltissimo per imparare canto, musica, e preghiere ortodosse.

Mostra spesso i suoi brillanti voti di scuola direttamente ad Abba Marcello, tutto festante e radioso, facendogli capire le sue reali intenzioni di diventare un bravo Pastore ortodosso.

Egli è un ragazzo molto educato, apprende subito e mette in pratica i suggerimenti ricevuti quotidianamente dagli psicologi e dai superiori del centro, inoltre è molto sensibile alle necessità quotidiane degli altri bambini e dei poveri, che lui vede sostare ogni giorno davanti alle chiese Ortodosse.

A volte notando gravi casi di difficoltà di alcuni poveri, li presenta direttamente ad Abba Marcello, mostrando una sensibilità non comune per un adolescente. Queste sue doti umane sono considerate da Abba Marcello un vanto e un orgoglio per il Centro “Smiling Children Town”.

 

Storia di Zakarias Branu

Zakarias Branu, proviene dal villaggio di Bombe, vicino alla cittadina di Araka ubicata nella Regione del Wolayta da una famiglia composta da dieci figli e prima di inserirsi nel Centro “Smiling Children Town” ha vissuto in strada per circa tre anni ed ora sta frequentando la dodicesima classe ed il prossimo anno verrà inserito all’università di Soddo. In strada ha sofferto moltissimo ed ha sempre cercato di sopravvivere con lavoretti di fortuna, ma a stento riusciva a mantenersi. Il suo desiderio è quello di laurearsi in medicina e diventare un dottore. Ha molta volontà e sicuramente ci riuscirà, perché vuole a tutti i costi riscattarsi per aiutare anche la sua famiglia.

Quello che ha soprattutto colpito Abba Marcello ed il direttore del Centro Wondewosen Assefa, sono state le sue testuali parole: voglio diventare dottore, non per fare soldi, ma per andare nei villaggi dove la gente soffre e non ha soldi per curarsi, io li curerò gratuitamente, perché voglio fare del bene al mio popolo per la maggioranza colpito dalla miseria. In Etiopia non entri negli Ospedali se non hai soldi per curarti, avere un posto letto, sottoporsi ad operazioni e acquistare medicine; ma io voglio aiutare la mia gente a curarsi e vivere con dignità. Nell’ascoltarlo si capisce che queste sue parole sono frutto di ragionamenti di un ragazzo ormai maturo, ma soprattutto provenienti dal suo cuore.

Quando un adolescente è così determinato sicuramente realizzerà i suoi sogni.

Storia di Atnafu Bekele

Atnafu Bekeleè un ragazzo “ speciale” che viene dal villaggio di Wacciga nella Regione del Wolayta (Etiopia), da una famiglia di agricoltori  molto povera,  quasi al limite della sopravvivenza. Nella loro capanna costruita con legni, fango e con il tetto di paglia non c’è quasi nulla. I suoi genitori non posseggono neanche gli animali (buoi, pecore e galline) che solitamente servono per fornire il latte, uova e carne.

I suoi genitori e fratelli dormono in terra vestiti (se così si possono chiamare i cenci che indossano) sopra una stuoia e con una sola coperta.

Bekele da bambino si era allontanato da casa nel tentativo di trovare una sua strada per il suo futuro, come fanno tantissimi bambini che fuggono dalla povertà dei villaggi. Voleva andare in città perché altri ragazzi gli avevano detto che li poteva trovare quello che si desidera. Ma per circa due anni aveva sofferto molto, perché era costretto a vivere di espedienti, in particolare: di elemosina, qualche furtarello e un lavoro saltuario come facchino al mercato. Poi aveva conosciuto alcuni ragazzi dello “Smiling Children Town” a Soddo e su loro invito aveva raggiunto il Centro chiedendo di essere aiutato.

Per due anni ha seguito il ciclo educativo, frequentando la scuola con ottimi risultati e come solitamente fanno quasi tutti i ragazzi del Centro nel periodo delle vacanze scolastiche ritornava al suo villaggio per dare una mano ai genitori nel lavoro del loro campi.

Finito il periodo delle vacanze scolastiche (se così si possono chiamare), ritornato al Centro “ Smiling Children Town” si presenta dal direttore sig. Wondewosen Assefa, e sedutosi nel suo ufficio, inizia a piangere e tra un singhiozzo e l’altro gli dice: “Sono stato a casa con i miei genitori, con mio padre e mia madre ed i miei fratelli più piccoli e ho visto la loro situazione, la vita che conducono, quello che hanno da mangiare, dove dormono, dove passano le giornate,  il faticoso lavoro dei campi,  ho visto le loro mani callose,  il corpo magrissimo di mio pare quando insieme facevamo il bagno al fiume, ho visto i seni seccati  di mia madre, ho visto i miei fratelli più piccoli di me vestiti di niente. Io, sono qui in città, al centro e ho tanto: materasso, coperte, lenzuola, vestiti, scarpe, mangio tre volte al giorno, sono curato, vado a scuola, praticamente vivo una vita comoda e ho la possibilità di avere un futuro davanti.

Ma pensare continuamente alle condizioni di vita della mia famiglia mi tormenta ed ho deciso che non posso più stare qui, ma il mio dovere è di tornare in famiglia e aiutare mio padre nei campi ed i miei fratelli più piccoli a crescere.

Permettimi di andare a casa e lavorare al fianco di mio padre e per la famiglia. Non lascerò la scuola te lo prometto, anzi ti chiedo se puoi aiutami in questo. Il direttore con la voce strozzata dall’emozione promette a Bekele che sarà aiutato ed una volta comunicata la storia ad Abba Marcello, il ragazzo viene lasciato andare al villaggio ove attualmente lavora i campi ed aiuta la sua famiglia, continuando gli studi e sarà aiutato fino all’università perché ha tutte le qualità per raggiungere i suoi obbiettivi.

 

Donare un po’ del proprio tempo a chi ha bisogno.

Prima di iniziare questa esperienza in Africa provavo un po’ di timore, perché non conoscevo quella realtà e quelle persone. Non sapevo cosa aspettarmi, ma ero partita con l’intenzione di aiutare in qualsiasi modo tutti coloro che avevano bisogno del nostro aiuto. Abbiamo visitato popoli che vivono in condizioni estremamente disagiate e abbiamo cercato di aiutarli distribuendo farina, fagioli, sapone e vestiti, ovvero tutto ciò di cui avevano bisogno per un determinato periodo di tempo. I bambini del centro ci hanno pulito il cuore: queste persone sono dotate di una disarmante semplicità che i più “normali” non hanno. Vivono di relazioni, perché è tutto quello che hanno. Chiedono affetto e amicizia, che ricambiano con abbracci, sorrisi, carezze e dandoti la mano. Grazie a loro abbiamo scoperto il valore e la bellezza di condividere i vari momenti della giornata. Quello che abbiamo fatto in due settimane in Etiopia è una “goccia nel mezzo di un oceano. Donare un po’ del proprio tempo a chi ha bisogno, ci ha fatto capire che bisognosi siamo noi, con la sola differenza che le nostre mancanze non sono di natura economica, ma umana.”

Maddalena Mariani

Quello che rimane

Sono tornata dall’Africa ormai più di due settimane fa e, nonostante i giorni e le ore pieni di impegni, appuntamenti, compiti da consegnare e verifiche da svolgere, non è passato un singolo giorno in cui non mi sia fermata a pensare di nuovo a quei posti, a quella gente e a tutti i ricordi che ne sono legati.

Incredibile vero? Chi avrebbe mai pensato ad un effetto così viscerale dopo solo 15 giorni passati lì?

In realtà è nato tutto un po’ per caso, di fretta, senza troppe aspettative ma- si sa- le cose inaspettate sono sempre le migliori. Così sono partita insieme alle altre compagne di viaggio per quella che sarebbe stata, senza dubbio, una delle esperienze più belle della mia vita.

La differenza dall’Italia all’Etiopia la senti subito, non appena varchi la soglia dell’uscita dell’aeroporto di Addis Abeba: gli odori esotici e umidi, il caldo pesante e inebriante, i colori vivaci e pungenti che adornano l’Africa e che ci hanno accompagnato per tutti quei giorni trascorsi. Dopo un giorno intero di viaggio, tra strade scoscese, polvere e saluti dei passanti, arrivammo a Sodo, la cittadina in cui si trovava il nostro centro, Smiling Children Town.

Premetto che non starò ad elencare tutto quello che abbiamo fatto e tutte le cose vissute, sia perché non mi basterebbe un libro intero, sia perché certi ricordi vanno custoditi gelosamente affinché continuino ad avere il loro sapore nostalgico; quindi mi limiterò a scrivere quello che a primo impatto ho scoperto stando in quei posti e vivendoli pienamente, secondo per secondo.

Sicuramente la cosa con cui devi fare i conti appena atterri in Etiopia è il concetto di tempo.

Eh sì, perché per qualche strana ragione il tempo in Africa scorre più lento, si dilata, segue il volere del sole, senza perdersi nella fretta e nel continuo ritardo che attanaglia l’Occidente. Così ti accorgi improvvisamente che, almeno qui, c’è tempo per respirare, per riflettere, pensare, pregare o fare tutte quelle cose che, ammettiamolo, a casa risulterebbero una perdita di tempo. Insomma, chi è che si ferma a riflettere sulla vita al giorno d’oggi, quando ci sono treni da prendere, centinaia di documenti da compilare e migliaia di appuntamenti da incastrare in una sola giornata?

Un altro punto che mi ha toccato particolarmente è la loro profonda Fede. È assurdo come questo popolo porti dentro di se tanta nostalgia e malinconia, mescolate ad una gioia inspiegabile e contagiosa. Tutti cantano, ballano, sorridono e ringraziano Dio per tutto quello che hanno che, credetemi, è veramente poco. Fanno ore ed ore di cammino, magari scalzi e con lo stomaco vuoto, per partecipare alla Messa della domenica, quando noi invece non abbiamo voglia nemmeno di prendere l’auto e guidare per dieci minuti, perché preferiamo dormire fino a tardi, piuttosto che sorbirci l’omelia di qualche parroco che crediamo noioso.

E poi chi se ne frega di Dio quando hai già una casa, soldi, vizi, feste, macchine e gioielli?

Noi occidentali se siamo felici e fortunati diciamo che è tutto merito nostro, mentre se qualcosa va per il verso sbagliato è colpa di Dio. Insomma, noi ci ricordiamo di lui o quando siamo incazzati, o quando vogliamo qualcosa. È un po’ come se fosse un supermercato dove andare a prendere qualche provvista, così non appena tutto quello che abbiamo non ci sembra abbastanza, iniziamo a chiedere e avanzare richieste. Ovviamente pretendendo che lui provveda, altrimenti che razza di Dio sarebbe?

Ecco invece quello che mi commuove di più delle genti dell’Africa è vedere la loro Fede incondizionata, sincera e umile in una divinità in cui credono nonostante le numerose difficoltà e sfide che la vita pone loro di fronte ogni giorno.

Un’ ultima cosa che ricordo con molta nostalgia è la bellezza che ti pervade mentre sei in Africa. Sarà il sole, saranno gli occhi dei bambini, il sapore del mango maturo o della natura sterminata che ci circonda, ma lì eravamo tutte belle. Belle anche con la fronte bagnata per il caldo, con i vestiti non perfettamente stirati, coi calzini sotto le infradito, i capelli scompigliati, le unghie senza smalto e le guance arrossate per via del sole. Non avevamo bisogno di trucchi, ombretti, correttori, piastre o filtri di Instagram per scattare foto perfette: era l’Africa stessa a renderci migliori, sia dentro che fuori.

Insomma, l’Etiopia è stata per me l’occasione per squarciare il Velo di Maya, per dirlo con le parole di Schopenhauer, ossia il tentativo di vedere il mondo, il passato e il futuro sotto un altro punto di vita, spogliato dei pregiudizi, delle categorie e degli standard che il mondo moderno ci impone. E se l’obiettivo del filosofo di Danzica era di raggiungere l’ascesi o il nirvana, a me basta aver ottenuto la consapevolezza che c’è e ci sarà sempre una buona ragione per fermarsi, respirare, guardare il cielo e sorridere, per poi riprendere a camminare.

Eleonora Dela’    5°C Liceo Linguistico Mamiani, Pesaro.

Sentire il bisogno di tornare in Etiopia

Tutti i viaggi hanno un inizio ed una fine. Tutti ad eccezione di uno. Sto parlando del viaggio verso l’Etiopia.

Questo viaggio ha un inizio ma non una fine, perché le esperienze vissute modificano il tuo modo di vedere e percepire le cose e quindi il tuo modo di essere.

L’inizio è diverso dai soliti, non avviene nel momento della partenza ma nel esatto momento in cui decidi di partire, da quel momento in poi tutto cambia e la tua “avventura” non finirà mai.

Il mio viaggio è iniziato a Febbraio di quest’anno, da quel momento in poi ho cominciato a fantasticare su tutto.

Il giorno mi concentravo sulle solite cose, ma la sera pensavo a come potesse essere lì, a come potessero essere le persone e riflettevo sulle ragioni che mi hanno spinta a prendere la decisione di partire.

Sicuramente ci sono ragioni più “banali” come ad esempio il fatto che mi piace viaggiare e che quindi sarei riuscita a vedere un posto nuovo, lontano e magico.
Magico perché ho visto persone che una volta tornate avevano occhi nuovi, occhi che brillavano quando raccontavano quello che avevano visto, ho visto persone che sono cambiate quasi radicalmente e sto parlando di un cambiamento in positivo che volevo vivere in prima persona. Accanto a queste motivazioni comuni ci sono quelle che, se vogliamo, possiamo definire più profonde e personali, come il desiderio di voler trovare fiducia nei rapporti umani.

Fiducia, una bellissima parola che ha un significato stupendo ma è molto difficile da dare.

Soprattutto se si è timidi e molto riservati, tutte caratteristiche che non rendono semplice la formazione di legami e quindi la fiducia rimane una cosa “concessa” a pochi intimi.

Così con le mie insicurezze e tanta voglia di partire il mio viaggio a Soddo nel “villaggio dei bambini sorridenti” ebbe inizio. In quel villaggio in soli 10 giorni ho conosciuto persone che mi hanno dato molto di più rispetto ad anni di conoscenza con altre. In quei 10 giorni ho vissuto essendo me stessa vivendo ogni singolo attimo senza scudi, facendo e dicendo quello che mi passava per la testa.

In quei 10 giorni ho imparato a non dare niente per scontato, neanche il più piccolo gesto che può essere un sorriso, un abbraccio, camminare tenendosi per mano o regalare una semplice caramella. L’ho imparato grazie ai bambini di strada, che con occhi incuriositi e non spaventati dalla mia pelle chiara mi guardavo attentamente, chiedevano qualcosa, qualsiasi cosa anche la più semplice come una foto, un sorriso o una caramella e loro in cambio ti riempivano il cuore di sorrisi e saluti, come se quella potesse essere la cosa più preziosa che potevi dargli.

L’ho imparato grazie ai bambini del centro che non perdevano mai l’occasione di giocare insieme, solo per il gusto di divertirsi in compagnia.

In quei 10 giorni ho imparato non solo ad apprezzare anche i più piccoli gesti ma anche quello che ho senza darlo più per scontato, ho preso ancora più consapevolezza del fatto che nella vita bisogna lavorare ed impegnarsi duramente per ottenere ciò che si vuole. E

questo mio passo avanti lo devo ai ragazzi del centro che alle 2 di notte stavano ancora studiando per l’esame di pochi giorni dopo, l’ho appresso grazie ai bambini delle scuole che abbiamo visitato, che pur di imparare studiavano tutti ammassati in un’aula piccola e buia, seduti sui dei tubi di ferro e senza banchi, scrivendo sulle ginocchia. In quei 10 giorni ho imparato tanto, ho pianto, ho riso, sono stata sommersa da immagini, profumi, emozioni, ho conosciuto persone fantastiche, ho goduto di panorami mozzafiato ma allo stesso tempo ho vissuto tutto con una tranquillità mai provata in vita mia.

Ed il tempo è volato. Troppo velocemente. E come un battito di ciglia mi sono ritrovata catapultata nella realtà di sempre.
Ma questa volta c’era qualcosa di diverso e quel qualcosa ero io. Ero diversa e sono diversa perché in me c’è una spaccatura. Una divisione tra corpo ed anima, il corpo continua qui la sua vita di tutti i giorni. L’anima si nutre in modo vorace ed insaziabile dei flashback. Grazie ad essi riesco a rivivere continuamente tutto ed a ricordarlo perfettamente.

Ancora più importanti ed essenziali dei flashback sono le notti, perché sono il momento perfetto per poter tornare in Etiopia, a Soddo, nel villaggio e nutrirsi nuovamente della linfa vitale che solo lì c’è.
Adesso, dopo aver vissuto una cosa del genere, posso dire con certezza che io ho bisogno di tornare, per me stessa, per i bambini e per tutto ciò che c’è.

Marzo 2018
Maria Rita Abatino

La nuova umanità

Raccontare un fatto, un evento, un’emozione, ciò che insomma ha costituito una determinata esperienza in un dato arco di tempo della nostra vita, spesso è riduttivo, spesso è difficile e spesso fa male.

Con ironia condannerò per sempre la richiesta di questo scritto ma proverò a descrivere tutte le sfumature di Etiopia che i miei sensi hanno impressionato direttamente nel mio cuore come macchina fotografica fa quando scatta una foto.

Dal principio, come per ogni fotografia, porrò luce, una luce, che appena esci dall’aeroporto di Addis Abeba , appare d’essere irradiata da un sole diverso e te ne accorgi nei colori che essa illumina ben definiti e accesi , nell’aria che essa riscalda che sembra avvolgerti e riempire i polmoni in ogni angolo più recondito, un’energia pura che riesce a cullarti nei momenti di ansia e di angoscia, quei momenti in cui manca il respiro e vedi tutto nero, ad essere avulso da quello stesso tutto e ricominciare a sorridere.

Il sorriso infatti è quasi un requisito fondamentale in questi paesi, come da noi lo è “l’homo consumens”, parrà quasi assurdo leggerlo, ma occorrerà forse girarsi fra le capanne fatte di fango, le scuole senza luce e affollate, le lunghe carovane interminabili di fatiche e bestie, per scendere dalla tua jeep, un po’ incriccato dai chilometri di strade disconnesse con la tua inconscia area sgargiante, a tratti prepotente, da occidentale, per attirare una meravigliosa creatura innocente che seppur provata dalla fame e dal lavoro trova quell’energia necessaria per inarcare la sua bocca verso l’infinito.

Dove trovano questa energia? Come fanno? Per cultura? Per interesse? Come già detto tutto va da ricondursi a quell’energia pura sopra citata, un’energia prodotta anche dalla loro, a noi ingiustificata, felicità, un concetto che trova veramente realizzazione in queste persone, perché sono in grado di vivere per questo, non per un lavoro, a loro basta sopravvivere, non per un’aspirazione, a loro basta amare ed essere amati, ma spendere e sacrificare la propria vita credendo , abbracciando , emozionandosi, cooperando, scopi e vere ambizioni che trovano ampia dimostrazione, tristemente, con gioia, in quei funerali, per cui tutto un villaggio si muove per ricordare e stare accanto ad un fratello.

In Etiopia, se parli sincero e con il cuore, di fratelli puoi averne quante sono le stelle, è opportuno quindi fare attenzione a dosare le nostre parole tanto quanto i nostri gesti e espressioni, l’empatia certo non manca, cercare di eluderli con un comportamento che mascheri ciò che sentiamo è pressoché inutile.

Perciò diventa necessario saper parlare con il loro linguaggio, non l’amarico o il wolayta (lingua nazionale e regionale), anche se qualche parola non è difficile impararla, ma senza censure e maschere, in modo che ciò che sia dentro sia anche fuori, e lo si può notare quando loro ti raccontano i propri sogni, sembra un’interpretazione teatrale, non tanto per le professioni ma per la passione con la quale vorrebbero arrivarci “vorrei aiutare le persone del mio paese, in modo che nessuno più soffra”, mi diceva un ragazzo di 16 anni, se poteste sentire il suo tono di voce , o vedere quegli occhi lucidi, il misantropo più accanito potrebbe ricredersi. Un dialogo, quindi, che va oltre la parola, una sinergia fra due interlocutori che stabilisce tutte le premesse per un vero match, dove non vince chi riesce ad affermarsi sull’altro, ma chi pone in dubbio se stesso, Io l’ho fatto.

Non è un processo immediato, perché soggettivo, ma prevalentemente riscontrabile ed occorre saper anche assimilare il contesto africano dentro di noi in modo da iniziare su pari livelli.

Dall’idilliaca bellezza delle azioni comunicative di chi vi troverete davanti nella loro più assoluta semplicità, seguirà un processo di sdoganamento da superflue passioni, certezze e ideologie con le quali abbiamo convissuto così tanto da rappresentare per noi caratteristiche d’identità e individuazione.

Sconosciuto, sarà tutto quello in cui vi riconoscevate, dunque è importante comprendere che nessuno vi ha rubato o allontanato da voi, parti fondamentali della vostra vita, ma solo potati da rami travianti e discordanti con quello che è veramente il tronco della vostra essenza e se vi sentirete vuoti forse lo siete sempre stati.

Devo ammettere che lasceranno ferite da trattare di diversa portata, ma vi daranno una grandissima opportunità per crescere alleggeriti da buona parte dei vostri limiti e con una vista meno ovattata che vi costringerà a rifiutare i ripieghi e le deviazioni su cui vi siete sempre cullati e intossicati per non affrontare la realtà. Non reprimete questo processo, sebbene vi circonderà disperazione “reale” e “giustificata”, non abbiate vergogna di piangere e se lo farete capirete che il dolore non risparmia nessuno, né povero o ricco, bianco o nero ma è una condizione che accomuna la complessità degli individui, i quali agendo trovano opposizione, un ostacolo da superare o accettare per il proseguimento di una scala conflittuale, unico strumento per ammettere sempre più le cose nella loro totalità.

Una scalata eterna, che inizia in Italia fino alla fine del mondo con vette variabili che in africa sembrano toccare il cielo per una paradisiaca atmosfera in cui luminosi astri volteggiano danzanti intorno ai nuovi santi.

Marzo 2018
Alessandro Pio Adimari

Vi racconto l’Africa con gli occhi di chi la vive per la prima volta.

E mi ritrovo qui, a scrivere per mantenere vivo il ricordo di quella che è stata un esperienza straordinaria, che ancora, dopo giorni, arde dentro me.
Molte persone, appena tornata, mi hanno fatto la classica domanda: “Allora Ari, come è andata in Africa?”, di getto rispondevo: “ Bene”, ma bene è poco, e l’Africa
è troppo.

Ho questo viaggio impresso nel cuore e nella mente, eppure, non riesco a raccontarla a chi non l’ha vissuta in prima persona.
Sono partita senza aspettative, sono stata sottovalutata, e mi ero autosottovalutata, non pensavo di farcela, ma sono dell’idea che ogni tanto, bisogna cogliere al volo le occasioni che potrebbero dare una svolta alla tua vita, buttarsi un po’, prendere coraggio.

Vi racconto l’Africa con gli occhi di chi la vive per la prima volta. Sono state solo sei, le ore di aereo, che mi hanno portato indietro nel tempo; per ben 11 giorni ho vissuto esattamente al contrario di come viviamo tutti noi ai giorni d’oggi. Siamo nati in una società in cui siamo abituati ad avere tutto e subito, la sottoscritta per prima, dove pretendiamo sempre, senza mai ricambiare nulla.

In Ethiopia, a Soddo, ho imparato probabilmente la lezione di vita più importante; ho imparato a non prendere nulla per scontato, a pensare un po’ meno a me, e concentrarmi più sul prossimo, ho imparato a condividere, ho imparato che ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, ogni persona hanno un valore, ho imparato ad apprezzare anche le più piccole cose, ho imparato a vivere. Mi basta chiudere gli occhi, fare un respiro profondo, e sentire l’odore rancido dello smog ad Addis Abeba, l’odore forte dell’aria, delle persone, e quello dolciastro del caffè appena scaldato sui mattoni. Ricordo la terra rossa, quella fastidiosa, che ti si infila dappertutto, sento le risate dei bambini, vedo i sorrisi della gente che si sbraccia per salutare noi bianchi, vedo piccole anine che si allungano nella speranza di racimolare qualche spicciolo o pezzo di cibo. Sembra quasi che tutti questa gioia, questa vitalità, annienti la loro povertà e la loro sofferenza. Per giorni sono stata tormentata di domande nella mia testa, non capivo il motivo di tutta quella felicità, in quelle condizioni di vita, e di tutta quella vita, in un posto dove data la povertà, e ne dovrebbe essere ben poca.

Dopo giorni, ho iniziato a darmi delle risposte; A loro mancheranno i vestiti, la tecnologia, l’acqua, il cibo, potrei fare una lista infinita, ma sono pur erta, che a loro non mancherà mai l’amore, pare che sia questo l’unico modo per annientare la morte. Penso che quello che l’ Africa ci trasmetta sia un contatto più saldo con la fluidità della ita di sempre. Non importa quante cose materiali si possiedano, tutto passa in secondo piano. Abbiamo soggiornato della Smiling Children Town, a Soddo, un centro di accoglienza per ragazzi di trada fondato da Abba (padre) Marcello. Che dire… una seconda casa!

I ragazzi del centro sono fantastici, disponibili, i pomeriggi liberi li passavamo con loro, tra una partita a pallavolo e n altra c’era sempre tempo per qualche risata. Tengo vivo il ricordo dei paesaggi; ancor ora, in macchina, capita che la mente viaggi per migliaia di chilometri, e mi porti tra le immense ride colline dell’ Ethiopia, nelle sue foreste, o magari sulla riva di qualche lago popolato da coccodrilli, ippopotami, e chissà quanti altri animali.

E’ proprio qui, che la natura prende il sopravvento sull’uomo, è libera, è viva, ti fa sentire piccolo, impotente. Ho avuto la fortuna di vedere probabilmente per la prima volta il cielo. ricordo benissimo quella notte, tutta la città era rimasta senza luce, c’eravamo solo noi, con il buio, un eterno silenzio e le stelle. Ci siamo sdraiati in giardino, sull’erba fresca ad assistere a quello spettacolo mozzafiato all’interno di una profondissima quiete.

In questo viaggio sono venuta in contatto con me stessa, ho riavvicinato a me l’Arianna che ritenevo perduta da empo. Mi saranno anche mancate le mie solite abitudini occidentali, ma il mio cuore è sempre stato sereno, in pace, e i miei occhi riposati e brillanti, e forse queste parole ne sono la prova. In questo posto, sono riuscita ad appendere la maschera che porto sempre con me, mi sono lasciata andare, ho giocato, riso, cantato, insieme a dozzine di bambini, che ricambiavano con sorrisi 36 denti, ho condiviso emozioni con persone conosciute pochi minuti prima. Un posto dove nessuno di giudica, dove vieni accettato così come sei, dove i pensieri spariscono, un posto da cui ai vorresti andartene.

Ho toccato la felicita. Ogni persona incontrata, ogni luogo scoperto, è riuscita ad entrare così profondamente del mio cuore, da lasciarmi un segno indelebile, permettendomi di vedere la realtà che mi circonda sotto un altra luce.
Mi sono sentita viva.

Passare da tutto al nulla, è un esperienza che auguro di fare a tutti nella vita. Auguro a tutti di essere guardato da un bambino che lotta ogni giorno per la vita con occhi pieni di lacrime, o di essere ringraziato migliaia di volte da persone senza che tu abbia assolutamente fatto nulla.

Auguro a tutti, di mettere prima o poi piede in Africa, per intraprendere un viaggio alla ricerca di se stesso, della felicità, dell’amore, ma sopratutto della vita.

Arianna.

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L’Africa ti fa amare i silenzi, l’Africa ti fa amare la vita.

Bastano 6 ore di aereo per fuggire da una società che lentamente ci abbandona alla monotonia e catapultarci in un mondo nuovo, una realtà che risveglia i nostri sogni e il saper riconoscere il capolavoro che è il mondo che ci circonda.
Questo è l’Africa. Questo è perché l’Africa chiama. È stato un viaggio, per caso, ma mica un viaggio qualunque, un viaggio da cui non torni, o meglio, torni solo fisicamente, perché io con la testa sono ancora là.

Perché quando vivi un’esperienza così ti rimane tutto, mi basta chiudere gli occhi per un istante ed ecco che torno subito a pensare alle manine agitate dai bambini che salutavo dalla jeep, a quegli sguardi che ti conquistavano, perché dove non si può comunicare a parole, ecco che entra in gioco il linguaggio dei sorrisi. Ma davvero, quelli sono sorrisi che penetrano e arrivano dritti al tuo cuore che batte all’impazzata, così tanto che a volte hai quasi l’impressione che possa uscirti dal petto. Questo perché l’Africa ti fa provare un’infinità di emozioni incontrollabili.

L’Africa è la tenerezza di una bambina che ti prende la mano, che la accarezza e lentamente la sfiora con le dita, quasi curiosa nel vedere un colore diverso dal suo, che poi mentre sei ferma a guardare le treccine che avvolgono i suoi capelli, si alza in punta di piedi e ti bacia la guancia. L’Africa è la musica che ti trascina nella mischia e ti fa dimenticare le tue paure, che ti fa sentire viva, e a quel punto è così facile lasciarsi andare.

L’Africa è quando ti trovi per la prima volta davanti alla vera, immensa, bellezza della natura e allora cominci a respirare la libertà, di un mondo ancora non contaminato dall’uomo, e ti rendi conto dell’inutilità di tutto ciò di cui sei stato schiavo fino a quel momento, perché dopo la sola vista di quel paesaggio capisci che non ti manca proprio nulla.
L’Africa insegna. Mi chiedo se durerà per sempre, mi chiedo come mai un paese ricco come il nostro sia allo stesso tempo così arido di valori veri.

L’Africa ti insegna a cambiare il modo di vedere le cose e a non lasciarti trascinare dalla corrente che ti porta al continuo bisogno di avere di più, a non valorizzare ciò che già possiedi, a non essere consapevole di quanto in realtà tu sia fortunato. E forse non è un male che non esista un vaccino contro il Mal d’Africa, perché è solo quando senti la mancanza così forte di qualcosa che percepisci realmente quanto questo qualcosa ti abbia dato. Perché sì, quando si prepara la valigia per un’esperienza come questa si lascia a casa il superfluo, ma si torna a casa con un bagaglio di gran lunga più pesante. È ricco, di cose che non si possono comprare, che non si è in grado di cogliere se ci si limita a pensare a sé stessi.

E sull’aereo di ritorno, ricominciano quelle 6 ore che ti riportano a casa, dalla tua famiglia, dai tuoi amici, nella tua quotidianità, e rifletti su quanto il tempo sia passato velocemente, su quanto sia stato bello condividere quel viaggio con le persone che hai conosciuto e a quanto questo ti abbia scombussolato la mente. E allora capisci che ora l’Africa è anche un bisogno, una calamita, che ti provoca l’impossibilità di non farvi ritorno, perché a volte senti il bisogno di sentire quella terra rossiccia sotto le scarpe invece che l’asfalto, perché l’Africa ti fa amare i silenzi, l’Africa ti fa amare la vita.

Pesaro, li 15 Marzo 2017
Federica Olmi