E, a tre settimane dalla fine dell’esperienza, confermo: sono ancora lì.

Ho rimandato per giorni la stesura delle mie impressioni sull’esperienza in Etiopia; non per mancanza di
voglia, tutt’altro: è da quando io e il mio gruppo abbiamo fatto ritorno in Italia che avverto la necessità di
dare forma ai miei pensieri. Ma il problema è proprio questo: riuscire a districare l’una dall’altra le emozioni
e le considerazioni che si intrecciano nella mia mente da trenta giorni a questa parte, per stenderle
ordinatamente su un foglio e per renderle comprensibili a me stessa e a chi, in Africa, non c’è mai stato.
Ricordo che durante la permanenza in Etiopia ci è stato detto che raccontare quanto avessimo visto
sarebbe stato tanto complesso per noi quanto comprendere per i nostri interlocutori; non credevo del tutto
a questa affermazione. “Quanto può essere arduo descrivere e capire?”, mi domandavo, con una punta di
scetticismo. Mi sono dovuta ravvedere, soprattutto per quanto riguarda il primo aspetto: parlarne.
Nulla è semplice dopo l’Africa: né tornare a casa, né raccontarla, né scriverne. Anzi, ricordare fa male,
perché mi rammenta che, adesso, io non sono più lì. È un dolore sottile, infido, subdolo e scorretto, perché
rimane sopito, in sottofondo, per poi emergere e colpire improvvisamente, innescato dalla più banale
situazione: prima di partire dall’Italia, sapevo già che lasciare l’Etiopia non sarebbe stato facile; ma ne ho
avuto contezza il primo giorno in cui sono rientrata al lavoro, quarantotto ore dopo il mio ritorno:
parcheggiando la macchina, ho notato un cumulo di terra, che, in quell’istante, veniva colpita dal sole in
maniera così particolare da avere assunto un colore marroncino-rossastro. E la mia mente è andata subito
lì, spontaneamente: all’Etiopia, e alla sua terra rossa. In quel momento mi sono resa conto che, pur essendo
già tornata in Italia, non ero realmente nel mio Paese. O meglio, lo ero fisicamente, ma la mia mente era
rimasta in Africa.
E, a tre settimane dalla fine dell’esperienza, confermo: sono ancora lì.
Ho iniziato e concluso il mio viaggio allo stesso modo: piangendo. In fase di atterraggio all’aeroporto di
Addis Abeba, ho guardato fuori dal finestrino e mi sono commossa, perché finalmente ero in Africa,
finalmente realizzavo uno dei miei sogni più grandi. Mentre l’ultimo giorno, sui sedili posteriori della jeep
che stava creando sempre più distanza tra noi e Soddo, lacrime di tristezza, miste a gratitudine, nostalgia e,
soprattutto, cambiamento mi hanno accompagnata per diversi chilometri. È vera la frase “L’Africa ti
cambia”, a posteriori posso dire che sia una delle affermazioni più veritiere che io abbia mai sentito: non si
può tornare uguale a come si è partiti dopo aver trascorso del tempo nel continente nero. Non dopo quello
che si è visto, toccato e percepito.
In Etiopia, io ho visto l’umanità, la forza e la tenacia; ho toccato la povertà, la fratellanza e la felicità; ho
percepito la spontaneità, l’amore e l’assenza di giudizi.
Mi sarebbe piaciuto descrivere l’episodio che più mi ha commossa, ma la verità è che ogni singolo incontro
mi ha lasciato qualcosa e narrare solo di uno vorrebbe dire omettere ingiustamente tanti particolari che
hanno reso il viaggio una delle esperienze migliori che abbia mai fatto.
Non credo di avere mai sorriso così sinceramente come ho fatto in Etiopia; potrebbe sembrare un
controsenso agli occhi di chi non ha mai messo piede in Africa, e posso capirlo. Come si può pensare di
sorridere quando si è a contatto con l’estrema povertà? Eppure, ciò che ho notato io è stato il grandissimo
senso di felicità e gratitudine che sprizzava da ogni centimetro di pelle delle persone. Sono stati soprattutto
i bambini che abbiamo incontrato nel nostro cammino che mi hanno trasmesso questa sensazione: non ce
n’è stato uno che, dopo averci visto, non ci sia corso incontro o non ci abbia salutato da lontano indossando
sul volto un sorriso che sembrava avere più di trentadue denti, che sembrava più grande del suo viso.
Bambini che si avvicinavano a noi con gli occhi pregni di incontenibile gioia e un pizzico di sorpresa, e che ci
tendevano la mano non per ricevere qualcosa, ma solamente affinché gliela prendessimo; per il puro e
semplice desiderio di toccare un’altra mano, di un colore più chiaro, di una persona sconosciuta, con una
vita diversa e con problemi diversi. Ma quel gesto, quelle semplici strette di mano, quei volti illuminati da
sorrisi così contagiosi, hanno avuto il potere di rendere superflue tutte le nostre differenze e di comunicare,

senza usare la parola, che siamo davvero tutti figli dello stesso mondo. In Africa si perde la propria
singolarità e il proprio essere individui, e si converge in qualcosa di più grande di tutti noi, si diventa un
tutt’uno gli uni con gli altri, ci si trasforma in un singolo tutto.
Le strette di mano dei bambini, le donne che mandano baci, gli uomini che si inchinano e si tolgono il
cappello per salutare sono riusciti ad abbattere le barriere invisibili che l’uomo occidentale tende a erigere
tra sé e gli altri, come se l’incontro con un’altra persona potesse avere il potere di ledere un individualismo
tanto solenne e prezioso nella “nostra parte di mondo”. L’Africa insegna che non c’è nulla di più sacro
dell’incontro con l’altro e che, in fin dei conti, riuscire a rompere il confine che individualizza è, forse, uno
dei primi passi per vivere la vita in maniera più pura.
Ricordo con profonda nostalgia e gratitudine una ragazzina conosciuta in uno dei tanti villaggi che abbiamo
visitato; sono davvero in difficoltà nello spiegare quell’incontro, ma posso dire che, con nessuna parola e
tantissimi sguardi, ci siamo capite. Ci siamo viste, ci siamo riconosciute, ci siamo comprese, ci siamo dette
“Io non ti conosco, ignoro anche il tuo nome, ma vedo tutte nostre differenze e so che queste non contano,
perché, in fin dei conti, tu sei come me e io come te”. In quei profondi occhi scuri che mi osservavano, in
quel sorriso appena accennato e in quel volto segnato dalla curiosità, mi sono specchiata, e ho percepito
che avevamo appena stabilito una connessione.
Il senso di fratellanza e vicinanza che mi ha trasmesso quel momento l’ho respirato a pieni polmoni durante
tutta la mia permanenza in Etiopia. L’ho avvertito in una quantità innumerevole di situazioni, che si
possono riassumere in un episodio che mi ha particolarmente toccata: un bambino del Centro, dopo aver
saputo che sono figlia unica, mi ha preso la mano, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto con dolcezza:
“Adesso sono io tuo fratello, e ogni volta che tornerai qui al centro, sarai circondata da centinaia di altri
fratelli”.
E io adesso l’ho capito il motivo per cui in Africa sono stata così felice, il motivo per cui sono sempre stata
così serena, con gli occhi brillanti e colmi di una luce totalmente diversa da quella che sprigionano quando
sono in Italia: perché, in Etiopia, ho finalmente (ri)scoperto il valore delle piccole cose, che piccole non sono
affatto, perché sono le più pure, autentiche e genuine.
In Etiopia non ho mai avuto paura di mostrarmi per quel che sono, non ho avuto timore di fare vedere agli
altri ciò che sentivo, e mi sono sentita totalmente libera di esibire le mie debolezze, perché lì sbagliare non
è così importante; non ci sono pregiudizi e giudizi, non bisogna dimostrare di essere e di sapere fare,
perché in Etiopia basta che tu ci sia, che presenti la versione sincera e reale di te per essere accettato per
ciò che realmente si è.
Arrivata in Africa, pensavo che sarei stata io a lasciare qualcosa alle persone, invece mi accorgo che è stato
il contrario.
E quindi com’è stato tornare alla mia vita, dopo quasi due settimane passate in contatto con quella realtà?
Com’è stato tornare a casa? Riabituarmi allo stile di vita del “nostro” mondo?
Beh, in primo luogo ho scoperto che il mal d’Africa esiste davvero, ed è una sensazione prorompente,
viscerale, a tratti anche mentalmente invalidante. E poi mi sono resa conto che ora nella vita si è creata una
spaccatura: il prima e il dopo l’Etiopia. L’Etiopia mi avrà tolto i confort ai quali sono sempre stata abituata,
ma mi ha dato tanto, molto di più: il calore di un sole diverso, la terra rossa che brilla sotto i suoi raggi, i
colori più nitidi, il ruggito potente delle cascate, il senso di appartenenza a un qualcosa di primordiale, la
familiarità dei gesti, la pazienza, la comprensione, le relazioni sincere e spontanee, la maggiore
predisposizione verso l’altro, l’allegria, la creatività… Sensazioni che ho intenzione di custodire
gelosamente, perché so che, se non ci presterò attenzione, verranno inevitabilmente contaminate dal
differente spirito che permea il nostro stile di vita.
La prima cosa che mi ha colpita dell’Etiopia è stata proprio la sua terra rossa, di un rosso nuovo, più acceso,
più ferroso, un rosso sangue che pareva volere spiegare che, forse, è l’Africa la prima vera casa
dell’umanità. Una terra rossa che si infila ovunque, che per quanto ci si possa lavare rimarrà comunque in

qualche pertugio, dentro le scarpe, tra le pieghe dei vestiti, negli zaini, persino all’interno delle orecchie.
Ora, a qualche settimana dal rientro in Italia, vivo la mia istintiva attrazione verso quel suolo così differente
come un segno: proprio come la sua terra, l’Africa, una volta vissuta, non può che rimanere appiccicata addosso.

Federica Franca , Dottoressa Magistrale in Scienze Criminologiche. Gennaio 2025