Giulia Galeazzi
Articolo pubblicato sul settimanale della diocesi di Pesaro “Il nuovo amico”
Da quando sono tornata dall’Etiopia molte volte mi è stata posta la domanda “Allora,
com’è andata l’esperienza in Africa?” e d’istinto ho risposto “Bene!”. Bene è semplicemente
riduttiva come risposta, ha bisogno di approfondimenti e a ragione può sembrare prettamente
convenzionale. Mi piace dunque pensare di essere in grado di presentare a voi lettori un
quadro generale di quello che ho vissuto in quella terra lontana insieme ad altri dieci ragazzi,
mettendo nero su bianco le riflessioni che sono scaturite in me durante quei pochi, ma pur
sempre intensi giorni di soggiorno a Soddo.
Come recita il titolo, l’Etiopia mi è sembrata sin dai primi istanti una terra dai mille volti,
per non dire contraddizioni. L’ho percepito subito dall’energia, allegria e spensieratezza che la
gente trasmetteva, dai bambini che salutavano con la mano e sorridevano… Tutto questo,
però, mutava immediatamente aspetto quando l’attimo dopo quella mano veniva allungata per
chiedere l’elemosina e si leggeva loro in faccia tutta la sofferenza di una vita di stenti. Può
sembrare pura retorica descrivere quello che si può osservare in un qualsiasi documentario
sull’Africa, ma quello che davvero mi ha colpito, aldilà del semplice fatto di sperimentarlo in
prima persona, è che ci sia bisogno di arrivare fin lì per rendersi veramente conto di quanto
tutto ciò sia drammaticamente reale.
Dunque nonostante fossimo nel bel mezzo di un paradiso naturalistico, nell’altopiano del
Wolayta (regione in cui si trova la cittadina di Soddo, a circa 380 km a sud-ovest della
capitale), in un luogo dove l’inquinamento ambientale è praticamente inesistente, dove la
mano distruttiva dell’uomo non è ancora arrivata e si può apprezzare a pieno il rapporto
genuino tra uomo e natura, spesso mi sono sentita disarmata, impotente, spiazzata. Mi sono
chiesta come fosse possibile che, malgrado gli sforzi di molti volontari e missionari, le
condizioni di vita di molti, in particolare degli abitanti dei villaggi, dove ogni famiglia conta
circa una decina di figli, siano a dir poco precarie e traballanti. Mi sono sentita
tremendamente in colpa quando andavamo a visitare alcuni di questi posti dove la presenza
dell’acqua era un estremo lusso, e ascoltavamo i discorsi dei capi del villaggio che, dopo aver
ringraziato infinitamente Abbà Marcello per l’asilo o la clinica che aveva fatto costruire
grazie ai soldi dei benefattori, avevano ancora tante altre cose da chiedere, per noi così
scontate, ma per loro così vitali e purtroppo assenti. Non potevo fare altro che provare
empatia, scattare fotografie ai bambini, che impazzivano di emozione di fronte all’obiettivo e
sgomitavano per comparire nell’inquadratura, giocare, cercare di scambiare due parole, per
quello che la diversità della lingua permetteva, mentre nella testa martellava incessantemente
la domanda “cosa posso fare io per loro?”.
Ho cercato una risposta che fosse adeguata per tutta la settimana, arrovellandomi la
mente, quando infine mi sono accorta di averla proprio sotto gli occhi e che, proprio come
l’Africa, era anch’essa una medaglia a due facce. Una faccia è quella che ho scoperto
osservando più a fondo il centro d’accoglienza per bambini di strada realizzato da Padre
Marcello, che ospita oggi circa duecento ragazzi i quali di loro spontanea volontà hanno
scelto di accettare l’aiuto che veniva loro offerto, per migliorare la propria vita e ottenere
un’istruzione, oltre che un letto in cui dormire e del cibo da consumare ogni giorno. Ho
realizzato che senza il contributo di tutti noi questo non sarebbe mai stato possibile e vedere
con i propri occhi ciò che, con un minimo sforzo da parte nostra, è stato costruito mi ha
riempito il cuore di gioia. Una gioia consapevole di come la solidarietà elevata al suo più
nobile stato sia proprio quella, l’aiuto dell’uomo all’uomo. Va da sé che non bisogna fermarsi
qui, perché di servizi da costruire ancora ce ne sono tanti e tanti sono i progetti che Abbà Marcello
sta realizzando per andare incontro alle richieste numerosissime dei bisognosi.
L’altra faccia della medaglia, invece, più che essere una risposta mette in dubbio la
domanda stessa. Quest’ultima, infatti, non dovrebbe essere “cosa posso fare io per loro”, bensì
“cosa possono fare gli africani per gli africani”. Citando il famoso missionario Daniele
Comboni, il mio pensiero si rivela tutt’altro che nuovo e originale e traducibile con la sua
affermazione “Salvare l’Africa con l’Africa”. Non c’è bisogno, e anzi sarebbe terribilmente
sbagliato, imporre alla cultura africana la “civiltà” dell’Occidente (dall’alto del suo presunto
avanzato modello di vita), che la snaturerebbe e priverebbe di quei suoi valori preziosissimi
che noi oggi abbiamo perso, come la vita in simbiosi con la natura, per loro così normale,
eppure distante anni luci dalla nostra quotidianità.
In relazione a quest’ultimo punto ci tengo particolarmente a raccontare di Wendesen, il
ragazzo ventiseienne che ci ha accolto alla “Smiling Children Town” di Soddo, il quale da
poco è anche responsabile dell’intera gestione economica del centro. La sua storia inizia come
quella di un qualsiasi bambino di strada, senza la possibilità di andare a scuola e vivere
dignitosamente. E’ così che si avvicina al centro per i bambini di strada e grazie all’aiuto
costante di Abba’ Marcello conduce i suoi studi fino alla laurea in economia. Oggi eccolo lì a
mettere la sua competenza a disposizione dei bambini che sono proprio come era lui una
volta, ad aiutare l’Africa. La fraternità speciale e unica che gli si legge negli occhi quando li
guarda, le lacrime che gli velano lo sguardo intenso ed espressivo quando ci racconta cosa ha
fatto Marcello per lui e la sua famiglia infondono grande conforto, sono quasi una certezza:
Wende ci assicura infatti che, in base ai suoi studi, da qui a dieci anni l’Etiopia sarà
autosufficiente, in grado di reggersi sulle proprie gambe, economicamente e socialmente.
Penso che egli stesso sia prova dell’inizio di questo processo, prova che quello che dice è vero, e ciò
mi riempie di nuovo il cuore.
Questa volta, però, di speranza.