Sono tornata dall’Africa ormai più di due settimane fa e, nonostante i giorni e le ore pieni di impegni, appuntamenti, compiti da consegnare e verifiche da svolgere, non è passato un singolo giorno in cui non mi sia fermata a pensare di nuovo a quei posti, a quella gente e a tutti i ricordi che ne sono legati.
Incredibile vero? Chi avrebbe mai pensato ad un effetto così viscerale dopo solo 15 giorni passati lì?
In realtà è nato tutto un po’ per caso, di fretta, senza troppe aspettative ma- si sa- le cose inaspettate sono sempre le migliori. Così sono partita insieme alle altre compagne di viaggio per quella che sarebbe stata, senza dubbio, una delle esperienze più belle della mia vita.
La differenza dall’Italia all’Etiopia la senti subito, non appena varchi la soglia dell’uscita dell’aeroporto di Addis Abeba: gli odori esotici e umidi, il caldo pesante e inebriante, i colori vivaci e pungenti che adornano l’Africa e che ci hanno accompagnato per tutti quei giorni trascorsi. Dopo un giorno intero di viaggio, tra strade scoscese, polvere e saluti dei passanti, arrivammo a Sodo, la cittadina in cui si trovava il nostro centro, Smiling Children Town.
Premetto che non starò ad elencare tutto quello che abbiamo fatto e tutte le cose vissute, sia perché non mi basterebbe un libro intero, sia perché certi ricordi vanno custoditi gelosamente affinché continuino ad avere il loro sapore nostalgico; quindi mi limiterò a scrivere quello che a primo impatto ho scoperto stando in quei posti e vivendoli pienamente, secondo per secondo.
Sicuramente la cosa con cui devi fare i conti appena atterri in Etiopia è il concetto di tempo.
Eh sì, perché per qualche strana ragione il tempo in Africa scorre più lento, si dilata, segue il volere del sole, senza perdersi nella fretta e nel continuo ritardo che attanaglia l’Occidente. Così ti accorgi improvvisamente che, almeno qui, c’è tempo per respirare, per riflettere, pensare, pregare o fare tutte quelle cose che, ammettiamolo, a casa risulterebbero una perdita di tempo. Insomma, chi è che si ferma a riflettere sulla vita al giorno d’oggi, quando ci sono treni da prendere, centinaia di documenti da compilare e migliaia di appuntamenti da incastrare in una sola giornata?
Un altro punto che mi ha toccato particolarmente è la loro profonda Fede. È assurdo come questo popolo porti dentro di se tanta nostalgia e malinconia, mescolate ad una gioia inspiegabile e contagiosa. Tutti cantano, ballano, sorridono e ringraziano Dio per tutto quello che hanno che, credetemi, è veramente poco. Fanno ore ed ore di cammino, magari scalzi e con lo stomaco vuoto, per partecipare alla Messa della domenica, quando noi invece non abbiamo voglia nemmeno di prendere l’auto e guidare per dieci minuti, perché preferiamo dormire fino a tardi, piuttosto che sorbirci l’omelia di qualche parroco che crediamo noioso.
E poi chi se ne frega di Dio quando hai già una casa, soldi, vizi, feste, macchine e gioielli?
Noi occidentali se siamo felici e fortunati diciamo che è tutto merito nostro, mentre se qualcosa va per il verso sbagliato è colpa di Dio. Insomma, noi ci ricordiamo di lui o quando siamo incazzati, o quando vogliamo qualcosa. È un po’ come se fosse un supermercato dove andare a prendere qualche provvista, così non appena tutto quello che abbiamo non ci sembra abbastanza, iniziamo a chiedere e avanzare richieste. Ovviamente pretendendo che lui provveda, altrimenti che razza di Dio sarebbe?
Ecco invece quello che mi commuove di più delle genti dell’Africa è vedere la loro Fede incondizionata, sincera e umile in una divinità in cui credono nonostante le numerose difficoltà e sfide che la vita pone loro di fronte ogni giorno.
Un’ ultima cosa che ricordo con molta nostalgia è la bellezza che ti pervade mentre sei in Africa. Sarà il sole, saranno gli occhi dei bambini, il sapore del mango maturo o della natura sterminata che ci circonda, ma lì eravamo tutte belle. Belle anche con la fronte bagnata per il caldo, con i vestiti non perfettamente stirati, coi calzini sotto le infradito, i capelli scompigliati, le unghie senza smalto e le guance arrossate per via del sole. Non avevamo bisogno di trucchi, ombretti, correttori, piastre o filtri di Instagram per scattare foto perfette: era l’Africa stessa a renderci migliori, sia dentro che fuori.
Insomma, l’Etiopia è stata per me l’occasione per squarciare il Velo di Maya, per dirlo con le parole di Schopenhauer, ossia il tentativo di vedere il mondo, il passato e il futuro sotto un altro punto di vita, spogliato dei pregiudizi, delle categorie e degli standard che il mondo moderno ci impone. E se l’obiettivo del filosofo di Danzica era di raggiungere l’ascesi o il nirvana, a me basta aver ottenuto la consapevolezza che c’è e ci sarà sempre una buona ragione per fermarsi, respirare, guardare il cielo e sorridere, per poi riprendere a camminare.
Eleonora Dela’ 5°C Liceo Linguistico Mamiani, Pesaro.