Ho conosciuto un angelo attraverso gli occhi degli Etiopi

Come tantissime persone di questo mondo fino a poco tempo fa, avevo una conoscenza sommaria e una vaga cognizione del mondo missionario, se non per averne sentito parlare dalle persone direttamente o indirettamente coinvolte o dai vari mass media.

Ma poi sempre attratto da questa realtà, ho intrapreso insieme ad altri conoscenti, poi divenuti amici, un viaggio in Etiopia allo scopo di portare aiuti al centro denominato” Smiling Children Town” di Sodo, cittadina ubicata su un altopiano a circa 370 chilometri a sud di Addis Abeba, fondato da Don Marcello Signoretti.

Arrivati a destinazione ci accoglieva, un timido ragazzo Etiope di nome Wondesen, di 26 anni laureato in Economia, il quale dopo averci illustrato come i ragazzi di strada vengono contattati ed invitati a frequentare il centro e tutte le attività che si svolgono all’interno, con lo scopo di dare loro un futuro almeno dignitoso, ci parlava della sua conoscenza di “Abba Marcello”, avvenuta quando lui era uno “street children” ed aveva circa dieci anni; Wondesen ci ha raccontato come Abba Marcello lo aveva aiutato a portare avanti gli studi fino alla laurea e che, senza il suo aiuto, non avrebbe potuto permettersi un corso di studi ed una laurea in quanto la sua famiglia era molto povera. Questo ragazzo si dedica oggi, dopo essersi laureato, ad aiutare i suoi “fratelli” di strada, ed è diventato uno dei responsabili del Centro.

Mentre Wondesen ci raccontava di Abba Marcello definendolo come suo secondo padre, dai suoi occhioni neri e molto comunicativi, oscurati da un cappello con visiera che è solito portare, iniziarono ad uscire dolci lacrime che lentamente solcavano il suo viso, esprimendo una commozione coinvolgente.

Ma, il vero coinvolgimento emotivo, lo si prova quando si conosce realmente quest’uomo speciale, non carismatico, ma umile, sereno e addirittura timido, di grande fede religiosa e con quell’amore che sa trasmettere ai bambini etiopi da “mancato” padre, più che da religioso, come in effetti era prima di vestire l’abito talare. Durante le giornate che abbiamo trascorso insieme ad Abba Marcello nel visitare i vari villaggi e missioni nel sud dell’Etiopia, sono rimasto colpito, dall’accoglienza che riceveva in ogni dove e di come la gente che incontrava con dignità lo ringraziava per tutto ciò che lui aveva fatto per loro, anche se a volte, non proferivano neanche una parola, si leggeva nelle espressioni dei loro occhi quanta gratitudine avevano nei suoi confronti.

Bambini poverissimi a volte completamente nudi che si avvicinavano con i loro occhi sorridenti e carichi di speranza ed urlavano: Abba, Abba, oppure Marcè…Marcè…..oppure l’intercalare tipicamente pesarese Allora….Allora….!!!, o ancora malati e anziani malnutriti che comunque si prostravano innanzi a questo grande uomo e per tutti quanti Abba, con il suo tipico gesto di mettere loro una mano sulla testa, aveva sempre una parola di conforto o una promessa o un gesto di aiuto, morale ed anche economico.

Ho provato una profonda commozione quando ci siamo recati presso una fabbrica di mattoni completamente gestita e composta da lavoranti cechi, mi ha colpito il loro modo di muovere la testa appena hanno udito la voce di Abba Marcello e dopo che lo avevano salutato mi è sembrato di vedere gioia e serenità trasparire dai loro occhi fissi e senza colore. Il momento più commovente dell’intero viaggio è stato la visita al “Children’s Blind Centre di Soddo”, dove vengono raccolti ed assistiti bambini cechi dalla nascita, che frequentano la scuola ed altre attività affinché abbiamo una qualsivoglia futura prospettiva di vita dignitosa.

Il Centro è diretto da un ragazzo anch’egli cieco laureato, molto capace ma con scarsissima sussistenza economica. I ragazzi dormono in stanze con materassi di gomma piuma spesso bucati e sottili come fette di formaggio emmental, che debolmente sostengono il peso sia pur leggero di questi ragazzi, mi si è stretto il cuore nel vedere questi bambini passeggiare nel giardino abbracciati o tenersi per mani a gruppi di tre, quattro o cinque per evitare di cadere o inciampare.

Erano sorridenti immersi in un oasi naturale di sole e colori di fiori variopinti di cui è gremito naturalmente il giardino dove essi passeggiano, mai purtroppo consapevoli delle bellezze del creato, ma pur tuttavia sorridenti, così come lo era quell’adolescente di nome Abdel, che stava leggendo su di un libro con metodo braille a rilievo ed alla domanda di Abba Marcello se gli piaceva studiare, rispondeva di si e che intendeva studiare fino a laurearsi, così da grande poteva aiutare la sua famiglia che era molto povera, trasparendo una serenità e mostrando un sorriso radioso, difficile da cogliere in altri ragazzi vedenti.

Toccante è stata la funzione religiosa celebrata in uno dei villaggi etiopi da Abba Marcello, contornata da canti di cori composti da giovani e balli di ringraziamento al “signore” a cui hanno partecipati tutti i presenti in chiesa. Fiumi di pagine possono scriversi a proposito del grande lavoro che questo prete missionario sta svolgendo in quel paese Africano, ma in questo mi ha preceduto Vincenzo Varagona giornalista del TG3, che ha scritto il libro “Abba Marcello – Viaggio nel cuore dell’Africa Missionaria”.

Antonio Cardinali

Ho scoperto una nuova parte di me

Antonia Grasselli

Sono sempre più convinta, dopo più di trent’anni d’insegnamento, che le esperienze formative sono tali se i loro destinatari ne sono protagonisti, soggetti attivi di un percorso che contribuiscono in modo determinate a realizzare, per giungere alla scoperta di qualcosa di nuovo e d’importante per se stessi. Posti in questa condizione, ben preparati e aiutati da adulti consapevoli, i giovani riescono a misurarsi con le realtà che incontrano.

L’apertura naturale del loro cuore, insieme all’autenticità dello sguardo, li porta a coglierne l’essenziale, il punto di verità.

Persuasa di questo, sono andata a Pesaro al Liceo scientifico “G. Marconi” per documentare un progetto di cooperazione internazionale che la scuola sta conducendo ormai da cinque anni, sostenendo la realizzazione di alcune opere intraprese da don Marcello Signoretti – sacerdote pesarese incardinato nella diocesi di Soddo in Etiopia – e per incontrare alcuni studenti che hanno partecipato quest’anno al progetto e al viaggio in Africa, realizzato con il contributo del comune di Pesaro.

Sono stati loro, Monica, Francesca, Filippo, Eva, Filippo Maria, che hanno indicato il valore di questa straordinaria esperienza educativa. Lascio così a loro la parola.

Il viaggio in Africa ha corrisposto alle vostre attese? “ Sono partita per l’Africa pensando che, vivendo in prima persona, avrei avuto una conoscenza diretta della situazione. Ma, arrivata laggiù, mi sono aperta, ho socializzato con tutti, con i bambini sono riuscita a stare bene, ho giocato, mi sono divertita con loro, io che non ho fratelli e non sapevo come comportarmi con i bambini: ho scoperto una nuova parte di me.

E’stata un’esperienza che ti riempie il cuore. Difficile dire tutto quello che ti lascia, anche il senso di serenità che si respira laggiù. Vivono in situazioni veramente pessime, però ti trasmettono serenità e tranquillità. Ho cercato di riportare questo dentro di me, la serenità delle persone e la loro gioia, ho cercato di cambiare le mie priorità: le nostre priorità, rispetto alle loro, sono veramente inutili”. (Francesca)

E’ cambiato qualcosa in voi stessi?
“Pensavo che il dramma fosse arrivare in Etiopia, il dramma invece è stato ritornare in Italia. Sono rimasto colpito positivamente in tutto. Mi sono sentito libero. Mi hanno colpito i bambini, il loro sorriso. I problemi li vivono giorno per giorno, non pensano tanto al futuro. La cosa che mi ha toccato di più è stato il dormitorio dei bambini ciechi, il giocare a calcio con una palla con dei sonagli: non riesco proprio a immaginarmi come ci riescano. Credo di essere cambiato: ero timido, ora sono più socievole, più tranquillo. I problemi li penso con meno ansia. Avendo vissuto questa esperienza, sono consapevole che nel mondo esistono veri problemi. I nostri non dovrebbero neanche essere chiamati così”. (Filippo)

E’ possibile fare un confronto tra mondi così diversi, il nostro e il loro?

“ Quello che io mi sono portato dal viaggio è stato il loro modo diverso di vivere e il pensiero che forse quello che fanno laggiù è una vita migliore della nostra qua. Mi ha colpito tutto quello che è diverso, da come i bambini ciechi giocano a calcio, da come i ciechi fanno i mattoni, ma anche un approccio alla vita tutto diverso, con più vitalità, naturalezza, musicalità. Mi sono quindi chiesto se è giusto proporre un modello di sviluppo come quello occidentale, se loro potrebbero trovare un’altra via al progresso”. (Filippo Maria)

Quali gli aspetti, secondo voi, in cui si manifesta maggiormente la diversità?

“In questo viaggio ho cercato di confrontarmi con questa realtà, così diversa dalla mia. Mi è sembrato di tornare indietro nel tempo, in un mondo senza tecnologie e infrastrutture. Mi sembra di vedere che l’uomo può vivere senza tutte queste cose, che da una parte rovinano la nostra umanità.

Il contatto con la natura, che in Africa è un’esperienza costante e molto forte, è una mancanza grave per la nostra società. Il contatto con la natura ci serve per stare bene. Quando ero lì, mi bastava guardare i colori, in giro gli animali, i coccodrilli al lago, liberi a pochi metri. Suoni, profumi, colori, animali. Mi ha colpito anche il fatto che mi sembra non ci sia un attaccamento morboso alla vita, come abbiamo noi occidentali. Noi abbiamo paura della malattia e della morte. Ho assistito al rito della sepoltura di un ragazzo morto per un incidente. Ho notato naturalezza negli atteggiamenti, è come se lì fosse accettato il ciclo della vita. Mi è sembrato di vivere in un mondo senza le complicazioni, le congetture del nostro, senza quell’importanza all’apparenza, che non è la sostanza della vita”. (Eva)

Riuscite a comunicare in Italia il valore dell’esperienza africana?

“E’ un’esperienza che rimane nel cuore, non solo quella che hai fatto in quei dieci giorni in Africa. Ti trovi in un posto completamente diverso e anche tu sei diverso. Mi sono scoperta una persona completamente diversa: io che sono ansiosa, sapevo gestirmi il mio tempo, essere serena e dare il meglio di me. Per questo vorrei tornare, per migliorare anche me stessa. A me piace raccontare la mia esperienza ai ragazzi della mia età e dire: Cosa stai facendo? Svegliati! Ci sono cose più importanti. A me piacerebbe che, nella gente che ascolta la mia esperienza, cambiasse qualcosa anche in loro, tanto da fargli dire: Anch’io voglio mettermi in gioco. Non è indispensabile andare in Africa, qualcosa si può fare anche in Italia. La sensibilizzazione che abbiamo fatto a scuola con la raccolta fondi e le iniziative per far conoscere questa realtà sono state molto importanti. Abbiamo cercato di far capire che non servono solo per gli africani, ma anche per noi stessi” (Monica)

Iniziato come progetto di solidarietà, d’impegno sociale a favore di popolazioni che vivono nell’arretratezza e nella miseria, il progetto ha mostrato di possedere una finalità ulteriore e di poter raggiungere un obiettivo più elevato e molto più ambizioso. L’impatto con la realtà dell’Africa, inimmaginabile prima dell’incontro diretto e comunque affascinante, e l’esperienza concreta della condivisione hanno destato un’umanità assopita, che è esplosa nell’esperienza della gioia e della libertà. Oggi questi giovani hanno scoperto chi sono e qual è il vero sapore della vita. Col tempo,  questa esperienza africana sarà sempre meglio compresa e assimilata, tanto da diventare pietra di paragone per le scelte importanti, nella vita e nel lavoro.

Un sole intramontabile: Soddo

Un sole intramontabile: Soddo
Francesca Mulazzani (2012)

E’ difficile trovare le parole giuste per trasmettere al meglio quello che abbiamo vissuto in quei 10 giorni a Soddo. Proverò a cercarle partendo proprio dalla lingua parlata dagli etiopi: il Wolaytta.

SARO’ – SARO’: ciao – ciao, questo semplicissimo saluto è forse l’insegnamento più grande e profondo che questo paese ci abbia lasciato. L’energia che colmava la povertà delle strade e dei villaggi era quella delle relazioni tra le persone, della spontaneità che bambini e adulti avevano sia nei nostri confronti, gli ospiti, sia in quelli dei loro compaesani.

La vita sociale come dimensione fondamentale dell’uomo e della sua quotidianità. Ciò che forse ha lasciato più di tutti sorpresi è stata proprio questa umanità, così presente nella vita quotidiana che non ha lasciato indifferenti le nostre coscienze, creando in noi la consapevolezza dell’alienazione che invece stiamo vivendo nella società occidentale.

Sbarcati all’aeroporto di Addis Abeba aspettavamo di sentirci noi i “diversi”, invece (parlo almeno per me) per la prima volta ho sentito l’appartenenza a qualcosa di più grande, più vero ed universale, cioè all’Umanità e alla Natura. Mi sono sentita un uomo in mezzo ad altri uomini, ho percepito la coralità che caratterizza l’essere uomini, uguali.

Questa dimensione così umana in mezzo a tanta povertà è stata il fattore determinante del cambiamento che ha segnato tutti noi e che mai ci saremmo aspettati così forte.

Sicuramente ciò che ha reso ancora più significativa questa esperienza è stata la visione o meglio il contatto diretto con una realtà che, nonostante i mille documentari che passano in tv, non finisce mai di stravolgere le aspettative.

La povertà di queste popolazioni accompagnata dalla speranza di miglioramento permette di comprendere che non ci si può porre di fronte a questa situazione col solito “cinismo occidentale”, che spesso ci porta a ritenere colonizzatrice l’azione dei missionari o a pensare che l’”inciviltà” (in riferimento a quella che noi occidentali chiamiamo civiltà) di questi popoli sia naturale. Ero partita con una domanda: non è forse un tipico atteggiamento occidentale quello di voler “portare aiuto” a questi popoli? Non si rischia forse di snaturarli?

Un quesito che durante i dieci giorni di soggiorno ha riempito i pensieri di tutti spingendoci a metterci in discussione tra di noi e in rapporto alla situazione. Alla fine ho provato a trarre una sintesi, grazie anche alle parole del vescovo che abbiamo incontrato (e vi assicuro che è un uomo prima che vescovo) e cioè che il denominatore comune a ogni intervento è l’obiettivo di garantire la dignità umana di ogni individuo e quindi di fornirgli i mezzi essenziali per la sopravvivenza, che vi assicuro non è cosa scontata “laggiù”.

Questo scopo è anche ciò che segna l’azione dei volontari della missione di Abba Marcello (fratello del prof. Signoretti).

Questo deve essere il presupposto fondamentale di ogni azione che proviene dall’esterno e che concretamente deve avere il solo obiettivo di permettere a questi paesi di diventare autonomi, investendo sull’istruzione, la sanità, l’amministrazione interna (vedi carceri, lavoro…), senza perdere di vista le loro tradizioni e la sfasatura nello sviluppo che esiste tra i nostri paesi occidentali e quelli africani.

Vorrei fare qui un appello a tutti, sperando di essere ascoltata. La fame che molte volte è la prima causa di morte di bambini, donne e uomini non è un problema così lontano dal nostro vivere quotidiano. L’inquinamento che il mondo industrializzato ha prodotto è la causa principale del cambiamento climatico, che, se per noi significa due gradi in più o in meno, per l’Africa rappresenta l’assenza di regolarità delle piogge e quindi carestia e quindi morte.

Dal momento che leggerete queste righe, voi siete tutti responsabili della vita di quei bambini:  l’unico mezzo per fare qualcosa è attivarsi nella sensibilizzazione di più persone possibili.

A questo punto, dopo aver tentato di farvi arrivare almeno un pizzico dell’energia che questo viaggio ci ha trasmesso, concludo con un ringraziamento a chi ci ha dato la possibilità di diventare più uomini e meno macchine.

TOSSIMMO ovvero grazie.

A Soddo la lezione più bella, abbiamo imparato cos’è la vita

Il Resto del Carlino del 31/03/2012
a cura dell’Ufficio Stampa del Comune di Pesaro

«A Soddo la lezione più bella, abbiamo imparato cos’è la vita”

L’emozionante viaggio di alcuni ragazzi del liceo Marconi in Etiopia, dove opera padre Marcello Signoretti

La Missione di don Marcello Signoretti in Etiopia sta diventando sempre più la missione dei pesaresi.

Un gruppo di tredici persone del liceo scientifico “Marconi” è da poco tornato da Soddo (viaggio realizzato in collaborazione con l’assessorato per la Cooperazione internazionale del comune di Pesaro), la località in cui opera il sacerdote di Candelara, che là ha costruito il “Villaggio dei ragazzi sorridenti”, dove hanno trovato rifugio tanti ragazzi e ragazze afflitti da fame e freddo (Soddo è a 2.000 metri di altitudine).

«E’ difficile trovare le parole giuste per trasmettere al meglio quello che abbiamo vissuto in quei 10 giorni a Soddo», spiega Francesca Mulazzani, studentessa, che è stata in Etiopia assieme agli insegnanti Marco Signoretti e Annarita Rincicotti, e ai compagni Margherita Valentini, Iris Kodra, Susanna Giacomini, Beatrice Costantini, Elisa Pascucci, Francesca De Scrilli, Francesco Benedetti, Roberto Rovelli, Veronica Balzan e a Sandra Mancini.

«L’insegnamento più grande che questo paese ci ha lasciato – spiega Francesca – si può sintetizzare nel saluto tradizionale: “sarò sarò”, che vuol dire ciao ciao.

L’energia che colmava la povertà delle strade e dei villaggi era quella delle relazioni tra le persone, della spontaneità che bambini e adulti avevano per noi e per i loro compaesani. La vita sociale come dimensione fondamentale dell’uomo e della sua quotidianità. Questa umanità sempre presente è stata la sorpresa più grande che abbiamo avuto e ciò che ci ha più fatto riflettere, in quanto ci ha resi consapevoli dell’alienazione che stiamo vivendo nella società occidentale».

Francesca ripercorre il viaggio: «Sbarcati ad Addis Abeba aspettavamo di sentirci noi i “diversi”, invece per la prima volta ho sentito l’appartenenza a qualcosa di più grande, più vero e universale: l’umanità intera e la natura, l’essere tutti uguali.

La realtà, nonostante i mille documentari, non finisce mai di stravolgere le aspettative. La povertà di queste popolazioni, accompagnata dalla speranza di miglioramento, permette di comprendere che non ci si può più porre di fronte a tale situazione col solito “cinismo occidentale” che molto spesso ci porta ad accettare tutto com’è o a giudicare l’opera dei missionari “colonizzatrice” solo perché si pensa che aiutando si possa in qualche modo snaturare queste persone».

«In dieci giorni – prosegue – anche tra noi ragazzi ci siamo messi molto in discussione su questo tema: la dignità umana e la sopravvivenza, cosa che non è scontata in quei luoghi, sono diritti dell’uomo. Questa conclusione è stata possibile anche grazie alla conoscenza dei progetti della missione di Abba Marcello, che col presupposto detto prima cerca di rendere autonomi questi popoli investendo sull’istruzione, sulla sanità e sulla gestione interna, costruendo scuole, ospedali, piccole fabbriche, come quella di mattoni per i ciechi».

L’Europa ha bisogno dell’Africa

L’Europa ha bisogno dell’Africa

Giorgia Nasoni (2011)

Tutto in Africa è diverso, il rapporto con il tempo, un’abitudine alla programmazione che manca.

Si parte per queste terre con la volontà di distaccarsi dal superfluo, dal fastidio per una società costruita per apparire. Ti ritrovi in immense piste di terra rossa, immerso in una natura lussureggiante, prorompente, dai profumi sconosciuti. Là assapori la polvere della siccità, la gioia indicibile del primo temporale che arriva dopo una lunga stagione secca.

La miseria senza fondo e il sorriso della gente. I bambini denutriti eppure gli alberi carichi di frutta. Ci si rende conto che lì la denutrizione comincia dai primi giorni di vita, quando, entrando nei tukul,capanne di fango, paglia e legno, noti donne gravide vivere nello stesso piccolo spazio in cui si trovano gli animali per evitare che di notte, le iene , li possano fare fuori.

Mi guardavo intorno ed ero sin dal primo momento accerchiata da persone con un sorriso stampato sul volto e mi chiedevo: “Come fanno ad essere così felici di vedermi quando nemmeno sanno chi sono?” Erano persone che vivevano pienamente il piacere dell’incontro, lasciando al domani le domande e i problemi.

Noi italiani che ne sappiamo dell’Africa? Solo fame, carestie, caldo…Lo vediamo come un mondo lontano dal nostro e, quando in sei ore di volo si giunge lì, crediamo siano l’anomalia, quando invece il nostro paese industrializzato è l’eccezione.

Vedendo le persone che dormono all’ombra degli alberi, le donne che con passo lento vanno a prendere l’acqua, i bambini scalzi con le loro divise sgargianti che salutano le jeep ai lati della strada, pensi che il tempo là scorra davvero diversamente dal nostro, che in Africa il futuro sia pensare ad arrivar in fondo alla giornata, alla successiva ci si penserà la mattina dopo.

Arrivi in un mondo di poverissimi con il sorriso, partendo da una civiltà di ricchi depressi, un paese di cupi, frettolosi, tremendamente soli e con pochi bambini accanto.

Forse è vero che non esiste alcun uomo sviluppato. Sono ricorrenti nei giornali notizie di uomini belli, ricchi, pieni di interessi e soldi che perdono la vita. Non esiste alcun uomo sviluppato, perché c’è in ogni uomo una fragilità che gli impedisce di realizzarsi pienamente.

Non ci sono persone sviluppate e non ci sono neppure paesi sviluppati. Non c’è il presunto sviluppato che dona al presunto povero. Non c’è al di sopra la mano che dona e al di sotto quella che riceve.

La società è malata ovunque. Non ci sono problemi solo in Africa, ma anche in Inghilterra, in Italia, in Francia. Anche l’Europa ha problemi economici. L’Europa ha bisogno dell’Africa.

L’Europa ha bisogno dell’Africa, per cui bisogna offrire all’Africa l’opportunità di venire in aiuto dell’Europa.

Ma il problema non sono i soldi. Il problema è altrove. E’ il problema umano di persone che si rispettano, si incontrano, si alzano in piedi e smettono di fare le guerre per impadronirsi dei soldi.

Grazie a quest’esperienza, mi sono riscoperta capace di condividere affetto senza parole…giorno e notte ero stuzzicata da domande tanto vere quanto pesanti…Perché io ricca ero lì? E cosa potevo offrire? Forse volevano solo soldi? Ma una volta dati soldi, sarebbero rimasti comunque dipendenti dal mondo occidentale.

Oggi guardiamo gli Africani come se ci portassero via qualcosa, quando invece siamo noi che ci siamo persi, noi che abbiamo perso il senso della vita.

Le mie previsioni erano corrette, è un orgasmo di sensi!

Il senso di un’avventura
Edoardo Amadori (2011)

Le mie previsioni erano corrette, è un orgasmo di sensi!

Certo, non è la stessa cosa che vederla da dietro uno schermo, ma la natura africana ti può arrivare anche a casa.

L’odore del mercato, le mani sudate dei bambini, i freddi goccioloni di pioggia equatoriale lungo il collo, quelli non li puoi far arrivare a casa! Il paesaggio da 100 e lode, così aspro, violento e dolce allo stesso tempo, seducente e mortale fa da sfondo alla miseria più nera. L’igiene è inesistente, la donna non ha diritti, non c’è elettricità se non in qualche lampione.

File di più di 400 taniche precedono i pochi pozzi, eppure questa gente sorride, corre, è felice! Mi sento spesso a disagio, a volte si chinano davanti a noi, ci baciano la mano, ci ringraziano. Sarei io a doverlo fare! Quello che ti lascia dentro questa gente non ha valore. Così li rialzi e abbracci degli sconosciuti con l’affetto che forse riserviamo giusto ai nostri amici più cari.

L’UOMO OCCIDENTALE è Grasso e Infelice
L’UOMO AFRICANO mangia poco ma Sorride

Un pezzo di Comune in Etiopia da Abbà Marcello

Sindaco, assessore Signoretti, docenti e studenti del liceo “Marconi” sono stati a Soddo per visionare la missione di don Marcello Signoretti.

PESARO – Togliere i bimbi dalla strada, portare l’acqua dove non c’è, gettare semi di speranza nella vita dei più poveri e dei più sfortunati. In Etiopia è questa la sfida quotidiana di don Marcello Signoretti. A Soddo, città di 100 mila anime della ragione del Wolayta, tutto parla del missionario pesarese. Scuole, strade, presidi sanitari, centri di accoglienza per i ragazzi. C’è molto di lui in quello che è stato costruito in quasi 15 anni di solidarietà. E c’è un pezzo di Pesaro anche nei progetti che “Abbà Marcello”, così lo chiamano i fedeli che riempiono la sua parrocchia, sta cercando di portare avanti in Etiopia. In parte grazie all’entusiasmo dei volontari che lavorano al suo fianco, in parte grazie alle donazioni che la sua missione riesce a raccogliere. L’ultimo contributo arriva proprio dai ragazzi e docenti del liceo scientifico Marconi, che sono riusciti a mettere insieme, attraverso una raccolta fondi, circa 7 mila euro. E grazie al sostegno dell’Amministrazione comunale, che ha coperto parte delle spese del viaggio fino a Soddo, nove di questi studenti, insieme al sindaco Luca Ceriscioli, all’assessore alla Cooperazione internazionale Marco Signoretti e altri quattro residenti, sono riusciti a vedere con i propri occhi i frutti del lavoro di don Marcello. Dal Ligaba School, l’istituto che in cui circa 3 mila etiopi hanno la possibilità di studiare, al centro di accoglienza per ragazzi di strada “Smiling children town”.

Fonte: articolo di Chiara Boiani pubbicato su “Il Messaggero-Pesaro” del 25/03/2011

Siamo tutti così uguali, non è retorica, è la consapevolezza di essere parte integrante di un molteplice infinito.

Ai miei amici

Elisa Rossini (2009)

Si parlava dell’esperienza vissuta, delle conclusioni tratte. Ciascuno faceva i conti con la propria coscienza nel silenzio della sala. Chi mi conosce sa che ho la lacrima facile: ma in quell’ora intrisa di battaglie interiori, senza vincitori, né vinti, era difficile persino piangere.

Ci fu detto che sarebbe stato totalmente inutile tentare di raccontare, o meglio, di raccontarci agli altri, una volta tornati a casa. Nessuno avrebbe mai capito veramente.

Io voglio raccontarmi, voglio che le mie parole vi guidino altrove, laggiù a respirare l’aria, aura leggera, invisibile, che ora e per sempre aleggerà attorno a me.

Parlerò, e se uno di voi capirà anche solo un centesimo delle cose che dico, allora saprò di aver apportato un soffio caldo alla gelida bora invernale; per quanto debole, riscalda il vento.

Ed io, soffierò ancora più forte.

Ora provate a immaginarvi seduti su un muretto di pietra, i piedi nel vuoto. Davanti a voi una distesa di terra rossa, dei ragazzi corrono, inseguono un pallone. Ad ogni passo la sabbia si solleva, si formano nell’aria nuvole rosse che salgono, vengono trasportate dal vento…improvvisamente giunge alle vostre narici, agli occhi, brucia la gola.

Chiudete gli occhi e cercate di scacciare con le dita quei granelli; nel farlo vi voltate, scuotete la testa.

Allora vi accorgerete di non essere soli. Siete osservati. Tante paia infinite di occhi neri e lucidi studiano ogni centimetro del vostro corpo. Guardate meglio. Sono bambini sporchi,

qualcuno ha i vestiti strappati, qualcuno troppo grandi su un corpicino così piccolo, altri troppo corti su gambe così lunghe. E voi, siete evidentemente troppo bianchi.

I ragazzi nel campo continuano a passarsi il pallone sotto il sole cocente. Per errore di uno di loro (o per sua volontà?), la palla finisce fra le vostre mani. Vi trovate di fronte ad una scelta. Il tempo incalza, il cuore batte il secondo: riconsegnare la palla al mittente o tenerla stretta e scendere in campo? Io sono scesa. Ho corso con loro fra la polvere, tanto a lungo da confondermi con essa.

Correte con me, ora. Non importa quanto siate alti, belli, forti. In mezzo a loro cessate all’istante di essere individui: perdete la vostra singolarità, entrate a far parte di un’unica natura immobile e perfetta. Una volta dentro, non ne uscite più.

L’uomo riacquista un nome, una dignità; ritrova la sua identità. Continuate a giocare. Si prendono tutto, corpo e anima; a loro volta vi danno tutto. Non pretendono nulla. Credetemi, non si aspettano niente: sono più spaventati di voi.

Il tempo passa e la polvere ha rivestito prepotentemente le vostre figure. Siete irriconoscibili, celate segreti e passioni dietro quello scudo di incerta sfrontatezza, ostentazione di armonia, sicurezza. Finalmente siete dei loro: tutti egualmente sporchi, accalorati, affamati, assetati. Da questo momento qualsiasi abito indossiate o qualunque sia il colore dei vostri capelli, voi sarete considerati per sempre amici, fratelli.

Ho parlato a lungo con questi ragazzi. Mi hanno raccontato la storia di un sole che prosciuga le sorgenti, di un vento che inaridisce la terra; la storia di una pioggia che si abbatte sui raccolti. Narrato i pellegrinaggi di un popolo che cammina, eccome se cammina.

Dio solo sa i chilometri che percorre. Quante cose ho visto attraverso quegli occhi di adulti, in corpi da bambini: le inenarrabili violenze nelle carceri, gli anni trascorsi ai bordi delle strade nella più nera miseria, con la sola certezza della fedeltà di chi è come loro, con la convinzione di valere quanto un tappo di bottiglia in mezzo all’oceano; le piaghe ai piedi nudi, i pidocchi, l’olezzo della povertà e degli escrementi addosso, attorno, ovunque.

Cosa devono aver visto quegli occhi per parlare tanto, senza che la bocca articolasse parola!

Liberatevi di tutto quello che sapete, o che credete di sapere. Vi ritroverete in ogni caso a dover riscrivere un papiro di centinaia di anni di disilluse ambizioni.

Concludo questa lettera con l’immagine di un cielo così terso da permettere alla luce delle stelle di fendere l’atmosfera e posarsi come un manto su di voi, a tingere d’argento quelle notti di sogni, d’amore.

Siamo tutti così uguali, non è retorica, è la consapevolezza di essere parte integrante di un molteplice infinito. Non divino, non umano.

Arde ad ogni passo la terra rossa sotto i miei piedi.

Con affetto

Elisa